Cara Left Wing,
non so se il nome di Michael Joyce ti dice qualcosa. Se sì, ci sono due soli possibili motivi: conosci piuttosto bene David Foster Wallace oppure ami il tennis a livello di (quasi) fanatismo (se possiedi entrambi i requisiti ho un paio di numeri di telefono da passarti, gente brava con tariffe accettabili). Michael Joyce fu una grande promessa del tennis americano tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta. Campione nazionale juniores nel circuito universitario, uno che, per intenderci, a sedici, diciassette anni se la giocava abbastanza alla pari con Andre Agassi e Pete Sampras. Per motivi imperscrutabili fu lui, e non uno degli altri grandi nomi della sua generazione, ad attirare l’attenzione di DFW che lo seguì per lunghi tratti di una stagione agonistica finendo poi per scrivere dodicimila memorabili parole sotto il titolo «The String Theory» che vennero pubblicate da Esquire nel 1996 e che poi vennero tradotte in italiano con il fantasmagorico titolo «L’abilità professionistica del tennista Michael Joyce come paradigma di una serie di cose tipo la scelta, la libertà, i limiti, la gioia, l’assurdità e la completezza dell’essere umano» (lo trovi in Tennis, tv, trigonometria, tornado di Minimux Fax).
Joyce fece una discreta carriera da professionista ma non più di questo. Arrivò al numero 64 della classifica mondiale, il che significava che in quel momento – era l’aprile del 1996, proprio quando Foster Wallace gli entrava nello spogliatoio mentre si preparava per un match – c’erano solo altri 63 ragazzi in tutto il mondo che giocavano a tennis meglio di lui (63 su tre miliardi di maschi, su milioni e milioni di praticanti in tutto il mondo: non male, no?), e al tempo stesso significava essere in serie B, perché l’Olimpo di dei ne tiene pochi, perché quelli che contano davvero, quelli che fanno i titoli e guadagnano milioni e devono scacciare le aziende che si propongono come sponsor sono giusto i primi dieci della classifica mondiale.
Michael Joyce si ritirò dal tennis professionistico nel 2001. Aveva ventinove anni. Non un ragazzino, in termini sportivi, ma certamente nemmeno un anziano. E’ solo che si fece male a un polso, una cosa che ai tennisti succede più spesso di quanto non crediamo noi fissati con quella storia del gomito; da infortuni come quello c’è chi si riprende (magari con una fatica bestiale e senza mai tornare ai suoi antichi splendori, come Juan Martin Del Potro) e chi no. Joyce no. Non poteva più stare in campo, non al livello richiesto dal tennis professionistico. Ma ci poteva stare in un altro modo. La vita è fatta di cose che possiamo controllare, che determiniamo con la nostra forza e volontà e applicazione (arrivare a rete quattro decimi di secondo prima, tirare un passante a sei centimetri dalla riga laterale e non a dieci, cose così) e cose che non possiamo controllare per quanto questo ci mandi ai matti (la volée dell’avversario, una folata di vento imprevedibile). Joyce aveva sempre avuto il talento di tirare fuori il meglio che si poteva dall’acqua nella quale si trovava a nuotare, che era fatta di cose controllabili e cose no. C’erano dei limiti oltre i quali non poteva andare, ma a quei limiti ci arrivava. Dava il meglio, e lo raggiungeva. Nei suoi limiti, appunto.
Fatto sta che Michael Joyce si mise a fare il coach. Sapeva insegnare il tennis, soprattutto lo sapeva capire e spiegare e far capire a gente poco più giovane di lui, che aveva i polsi ancora interi ma le idee ben meno chiare su cosa dovessero fare dentro quel rettangolo di ventiquattro metri per undici, e come. Divenne bravo, uno dei migliori, uno capace di tirare fuori il meglio dai ragazzi e dalle ragazze che seguiva, così come era riuscito a fare con se stesso. Soprattutto era una cosa che faceva con soddisfazione, senza rabbia né invidia nei confronti di quelli che i tornei li potevano giocare, cosa che il suo polso non gli permetteva più: «Sembrava che chiunque stavo seguendo iniziasse a giocare meglio. La maggior parte di loro erano già piuttosto bravi, io li portavo a un altro livello. Mi faceva sentire bene vederli avere successo e vederli felici».
Perché ti racconto questa storia, cara Left Wing? Per diversi motivi. Perché amo il tennis (forse non proprio da fanatico, ma abbastanza). Perché per me David Foster Wallace è una specie di totem, uno di quelli che dicono le parole che ho in testa e non sono capace di esprimere. Perché mi piacciono le storie della gente che alla fine, in qualche modo, finisce per trovarsi in pace con se stessa facendo anche del bene agli altri. Perché domani, così mi dicono, c’è l’assemblea nazionale del Pd.
Post Scriptum: Il primo atto della storia di Michael Joyce l’ha scritto DFW. Il secondo, quello di cui ti ho parlato adesso, lo trovi su Longreads.com; dicono che bastano diciannove minuti per leggere il pezzo: fidati, sono ben spesi.