Si intitola L’austerità all’indomani della Grande Recessione ma forse il titolo più adatto avrebbe potuto essere Le conseguenze economiche delle politiche di austerità. Si tratta di un articolo recentemente pubblicato dal National Bureau of Economic Research che va ad aggiungersi all’ormai sconfinata letteratura sui disastri prodotti dalle politiche fiscali restrittive in Europa negli anni scorsi. A impressionare sono innanzitutto gli effetti sul pil e sui conti pubblici dei paesi che l’hanno applicata. Prescritta come la cura per rilanciare la crescita e ridurre il debito pubblico di Grecia, Italia, Portogallo, Spagna e Irlanda, l’austerità ha prodotto esattamente l’opposto: il pil si è inabissato di ben 18 punti percentuali e il debito è salito di 16 punti. Se i governi avessero evitato di applicare il ricettario miracoloso, il pil sarebbe calato di solo un punto percentuale e il debito sarebbe salito soltanto della metà.
Ma più che ubriacarsi di dati – pressoché in linea con altri contributi pubblicati nel recente passato – da tutta questa fiorente pubblicistica bisognerebbe fare tesoro di almeno tre insegnamenti. Il primo è che la storia si ripete sempre due volte, ma a differenza di quello che pensava Karl Marx, spesso si ripetono anche le stesse tragedie. Il vecchio e ormai pressoché introvabile saggio di Robert Skydelsky sull’esperienza del governo laburista inglese all’inizio degli anni Trenta, Politicians and the Slumps, sembra scritto ieri. La retorica, le scelte politiche e l’impressionante conformismo delle classi dirigenti che abbiamo osservato dal 2010 in poi nei nostri paesi sono quasi integralmente sovrapponibili a quelli che abbiamo visto all’opera dopo il 1929, quando molti governi cercarono di uscire dalla crisi esattamente con le stesse ricette con cui abbiamo cercato di uscirne noi settant’anni dopo. E con gli stessi risultati, economici e – purtroppo – politici.
Il secondo insegnamento – e forse anche quello più importante – è che, nonostante la retorica sulla globalizzazione dei mercati e la perdita di centralità degli stati nazionali nello scacchiere mondiale, la politica mostra ancora una grandiosa capacità di determinare il corso degli eventi, nel bene e nel male. L’austerità non stava scritta nei trattati europei e nemmeno in una delle mitiche legge dell’economia spesso citate da quelli a corto di buoni argomenti. Benché spesso presentata all’opinione pubblica come una necessità, l’austerità è stata fondamentalmente una scelta politica fatta al G20 di Toronto del 2010, quando l’Europa allora guidata da Angela Merkel, Nicolas Sarkozy e Silvio Berlusconi decise che il breve periodo di politiche espansive coordinate a livello internazionale era da considerarsi concluso e che era arrivato il momento di tornare alla saggezza convenzionale. Le élite politiche di allora furono abili a presentare le proprie scelte pro austerity come necessità dettate dall’economia: per anni infatti credemmo che la politica si fosse arresa all’economia, ora invece scopriamo che vi si era soltanto mimetizzata.
Poteva andare diversamente? Se guardiamo al dibattito politico di quei giorni sembrerebbe di no. Ma se vogliamo evitare gli errori del passato, il terzo insegnamento di cui fare tesoro è che se un’alternativa non si scorge, occorre crearla. In politica, come in economia, quando tutti finiscono per dire la stessa cosa, c’è qualcosa che non va. E spesso a fare una brutta fine sono proprio quelli che quell’alternativa dovevano cercarla e incarnarla.