«Diamoci del lei». Di fronte a Michele Santoro così rispondeva uno stizzito presidente del Consiglio a un giovane militante del suo partito che, contestando l’intervento in Kosovo, gli si era rivolto dandogli del tu, come si fa tra compagni. Il primo, inutile dirlo, era Massimo D’Alema. Il secondo, Arturo Scotto, futuro parlamentare dei Ds che avrebbe poi aderito a Sinistra democratica, il movimento fondato da Fabio Mussi in dissenso con la scelta di dare vita al Partito democratico. «Ma dove va Mussi… tanto ci vediamo domani in Consiglio dei ministri», chiosava sempre D’Alema, quando qualcuno gli parlava del divorzio dal suo vecchio compagno di avventure. Era il 2007, il tempo del secondo precario governo Prodi, in cui D’Alema era vicepremier e ministro degli Esteri, Mussi ministro dell’Università. Finì che il governo cadde dopo pochi mesi, e nessuno dei due sarebbe più stato ministro.
Ma chi avrebbe immaginato di ritrovare un giorno insieme proprio Massimo D’Alema e Arturo Scotto, entrambi promotori di una scissione, l’uno dal Partito democratico e l’altro da Sinistra Italiana? Entrambi fondatori dei rispettivi partiti, entrambi fuorusciti prima dei rispettivi congressi, entrambi coinvolti nella costruzione di un gruppo parlamentare dal nome incerto e dal profilo ancora indefinito. Con tutto il rispetto che si deve alla passione e alla sincera preoccupazione di tanti militanti, e di quei pochi dirigenti che per storia ne sentono il peso, bisogna dire che il tono della scissione al centro del dibattito, quella del Pd, non riesce a essere né solenne né drammatico. Figuriamoci l’altra, di cui si sono accorti a stento i diretti interessati.
Paragonato alle grandi e piccole epopee che hanno agitato le acque della politica e le coscienze degli italiani quello che sta succedendo sembra consumarsi solo nell’ambito di una ristrettissima cerchia di personalità politiche e parlamentari. Più che solenne o drammatico è un processo preoccupante, tanto più perché testimonia il tentativo di riesumare le deboli appartenenze ai partiti protagonisti della stagione maggioritaria, in assenza delle culture politiche di riferimento, che proprio la lunga stagione maggioritaria ha diluito nel grande e confuso mare delle coalizioni pre-elettorali, fino ad annegarle. Eppure è proprio a quello, a una legge elettorale che riporti in vita le coalizioni-accozzaglia del brutto tempo che fu, l’obiettivo cui guardano molti dei protagonisti delle scissioni di oggi e dei nuovi micropartiti di domani. Se dovesse essere quello l’esito del confronto tra le forze politiche, è evidente che le scissioni dal sapore parlamentare potrebbero tendere all’infinito: tutti nemici ma tutti alleati. Solo così si spiegherebbe il paradosso di una scissione da sinistra del Partito democratico che, anziché puntare a cambiare gli equilibri di governo, punta a stabilizzare la legislatura fino alla scadenza naturale, allargando addirittura la base di consenso della maggioranza alla Camera dei deputati grazie all’ingresso dei deputati guidati da Arturo Scotto.
C’è però qualcosa di più che rende queste scissioni tristi, in particolare quella del Pd: la totale assenza di senso della storia. Fatto abbastanza grave, per degli storicisti. Basterebbe la logica elementare, a volte: essere registi di grandi creazioni politiche che si ritengono fallite dopo dieci anni significa dare un giudizio sul proprio lavoro, oltre che su quello degli altri. Le conseguenze sarebbero ovvie. Solo in Italia alla certificazione di un fallimento politico corrisponde la fondazione di un nuovo movimento. È valso per Rifondazione con la fine del comunismo internazionale. Più modestamente è valso per la fine dell’Ulivo con la fondazione dell’Asinello. Non ci resta che sperare che non accada lo stesso dopo il fallimento di quell’Ulivo in miniatura che fu la coalizione Italia bene comune, guidata dal Pd bersaniano.