Se guardiamo alla Brexit, all’elezione di Donald Trump, alla crisi del socialismo europeo e a tutto quello che rischia di arrivare nei prossimi mesi – fra elezioni olandesi e francesi, per non parlare di quelle di casa nostra, quando si faranno – il momento è davvero spaventevole. Più che dove sia la vittoria, verrebbe da chiedersi dove sia l’uscita. Qualcuno l’aveva detto, che a pensare di risolvere tutti i problemi con il mercato saremmo finiti male, ma è una magra consolazione. Bisogna riconoscere che il vecchio Karl Marx non aveva tutti i torti quando sosteneva che ogni tanto il capitalismo si autoaffonda. Questa volta ha sbriciolato uno dei suoi pilastri – il benessere del ceto medio – con cui aveva vinto prima la pace con se stesso e poi la lunga guerra contro il comunismo. Di quel ceto medio, un pezzetto l’ha portato in cielo, mentre una larga parte l’ha sbattuta all’inferno. E quest’ultima ora si ribella.
La lettura delle forze populiste, secondo cui quelli spediti all’inferno sono le vittime delle élite che ha governano il mondo, lascia però piuttosto perplessi. Se guardiamo alla storia degli ultimi trentacinque anni si potrebbe anzi dire che sia stato proprio il ceto medio a buttarsi nelle braccia del carnefice. Se volessimo fare un po’ di sociologia, potremmo chiederci chi sono gli ultracinquantenni occidentali, bianchi, incazzati, di cui abbondano accurati identikit sui giornali. Di sicuro non sono nati ultracinquantenni. Non sbagliamo di molto se diciamo che sono gli stessi che trent’anni fa negli Stati Uniti e in Gran Bretagna sostenevano Reagan e la Thatcher e – a casa nostra – avevano sperato prima nel craxismo e poi nel miracolo italiano promesso da Silvio Berlusconi.
Ora sono finiti all’inferno – insieme a quelli che già c’erano da tempo – e puntano il dito contro le élite, ma per trent’anni ci hanno tormentato con «meno Stato e più mercato» e con tutti gli altri slogan che hanno monopolizzato il dibattito pubblico. Hanno puntato tutto sull’ascensore sociale del mercato, invece che su quello del welfare di cui si erano invece avvantaggiati i loro padri, e improvvisamente hanno scoperto che l’hanno perso. Forse perché nessuno ha mai spiegato loro che l’ascensore del mercato sarà pure veloce, ma passa di rado e non è molto capiente. E chi doveva spiegarlo? Non so se le cose stiano come sostiene Salvatore Biasco nel suo ultimo libro – cioè che la sinistra non ha saputo spiegarlo perché si è adeguata allo spirito del tempo per convenienza politica – o se, avendo riposto in cantina i suoi strumenti analitici convinta che fossero vetusti, ha fatto proprio il quadro analitico dei neoliberisti e di conseguenza anch’essa, a un certo punto, non ci ha capito più nulla. Propenderei benevolmente per la seconda spiegazione. Sia come sia, l’inizio della partita è stato con Ronald Reagan, la fine con Donald Trump. E in mezzo la sinistra, pur andando più volte al governo nei maggiori paesi occidentali, non ha mai visto palla.
Ora ci troviamo con gli anglo-americani che, dopo averci imposto la turbo-globalizzazione, vogliono smontarla. E la sinistra rischia di sbagliare per la seconda volta la lettura della partita. L’Unione europea così come la conosciamo è stata creata quando è esplosa la globalizzazione vera e il capitalismo mondiale si è messo a fare sul serio, con i paesi emergenti che hanno agganciato il treno dello sviluppo e hanno invaso i nostri mercati con le loro merci, le loro braccia e – più di recente – con i loro cervelli. Nelle nostre migliori intenzioni doveva essere lo strumento con cui affrontare e gestire “politicamente” quella fase storica, ma a conti fatti non solo ha finito per mancare il suo obiettivo principale (l’edificio sovranazionale come voce unitaria sulla scena mondiale è miseramente fallito), ma anche per esasperare la situazione, perché alla competizione esterna ha aggiunto pure quella interna, eliminando di colpo gli strumenti di cui fino ad allora si erano serviti gli Stati nazionali (barriere doganali, politica monetaria, politica fiscale e sociale, inflazione) per garantire che l’ascensore sociale a livello nazionale funzionasse.
Siamo davanti a un mondo radicalmente cambiato: capitalismi nazionali, protezionismi, concentrazioni di poteri economici, negoziati bilaterali sempre più incasinati, guerre valutarie. L’Unione europea, per come è stata pensata a inizio anni Novanta, non va bene nemmeno in questa nuova fase storica. Da qui l’esigenza di cambiarla radicalmente facendo anzitutto funzionare l’ascensore sociale al suo interno, a prescindere che ci si trovi a Stoccolma o a Lisbona. Una sfida che chiama in causa non soltanto la governance economica europea, ma anche le politiche economiche e sociali nazionali. Ce n’è abbastanza per farci sopra un congresso.