Molti intelligenti conservatori sono oggi sinceramente preoccupati per la credibilità dell’Italia sui mercati – problema serissimo con un debito sopra il 130 per cento del pil – e per una linea di politica economica che continua ad apparire loro, dagli 80 euro lanciati tre anni fa ai recenti stop alle privatizzazioni, irresponsabile ed elettoralistica. Non condividiamo la loro filosofia, che ci pare abbia già dimostrato i suoi limiti con il governo Monti. D’altra parte, possiamo comprenderli: dovessimo indicare le due scelte che più di tutte hanno dimostrato una svolta a sinistra sul terreno della redistribuzione del reddito e dell’autonomia della politica da potentati italiani e stranieri, diremmo proprio quelle. Ma avremo altre occasioni per discutere dei guasti di una certa filosofia del rigore. Oggi vorremmo solo segnalare a quegli intelligenti conservatori che tra le alternative concretamente disponibili, per l’Italia di oggi, non c’è un nuovo Quintino Sella, ma solo diverse sfumature di populismo fiscale, da chi rilancia la flat tax a chi propone di finanziare il reddito di cittadinanza con il taglio delle spese militari e delle autoblu.
Molti acuti commentatori di idee liberali esprimono dubbi sulle continue prove di forza con la commissione europea, e sono dubbi pesanti, per un paese fragile come l’Italia. Non condividiamo il loro punto di vista, che ci pare abbia già mostrato i suoi limiti economici e politici in tutta Europa, ma avremo altre occasioni per discutere dei guasti dell’austerità. Oggi vorremmo limitarci a segnalare a quei sinceri liberali che tra le alternative concretamente disponibili non c’è un nuovo governo Ciampi, ma solo diverse sfumature di antieuropeismo e nazionalismo autarchico, da chi vuole uscire dalla moneta unica e dalla stessa Unione europea a chi propone allegramente di stampare una moneta parallela, per vedere l’effetto che fa.
Molti autorevoli intellettuali di sinistra deplorano scelte politiche e rotture simboliche compiute da Matteo Renzi in questi anni, contro antiche e nobili tradizioni della sinistra. Criticano una leadership che è stata spesso solitaria e aggressiva, una concezione del partito e del governo verticistica e personalistica. In qualche occasione abbiamo condiviso questo punto di vista, almeno fino al momento in cui quegli stessi intellettuali hanno cominciato a tessere più o meno scoperti elogi del Movimento 5 Stelle, che mostra una concezione della democrazia che è semplicemente estranea alla storia della sinistra e alla cultura costituzionale dell’Italia repubblicana. Ma se preferiscono andare con loro, magari per ritrovarsi domani – in nome degli autentici valori della sinistra e della Costituzione – alleati di Matteo Salvini e della Lega, vadano pure dove li porta il cuore. A loro non abbiamo nulla da dire.
A tutti gli altri vorremmo dire invece che questo è il momento di sostenere il Partito democratico, unico argine alla pericolosa deriva che stanno conoscendo oggi Stati Uniti ed Europa, dove tornano ad allungarsi le ombre pesanti di una politica dell’odio e del risentimento, che alimenta paura del futuro e rifiuto della diversità. Per questo è così importante che dal congresso del Pd emerga una leadership forte e autorevole, capace di difendere l’interesse nazionale in Europa e al tempo stesso di spingere l’Unione fuori dalle secche dei risorgenti nazionalismi, interrompendo la drammatica spirale austerità-populismo che minaccia di disintegrarla. Perché una deflagrazione dell’Unione europea, per un paese con le fragilità strutturali dell’Italia, sarebbe semplicemente una catastrofe.
Ma se questa è la posta in gioco, la scelta non sembra difficile. Non solo perché Matteo Renzi è il presidente del Consiglio che per la prima volta è riuscito a rompere quella spirale, imporre una diversa lettura dei parametri europei, aprire una vera battaglia in Europa contro politiche che hanno strangolato proprio le economie più deboli. Non solo perché alle elezioni europee del 2014 il Pd guidato da Renzi si è dimostrato l’unico partito della famiglia socialista capace di sconfiggere i populisti. Ma anche perché è difficile vedere un’alternativa più solida, su questo terreno, in Michele Emiliano, che di Renzi ha semmai tutti i difetti, ed è ancor più arduo immaginarlo come argine al populismo, se non nella forma di una poco convincente cura omeopatica. Quanto a Andrea Orlando, che sul piano della cultura politica avrebbe invece tutte le carte in regola per condurre questa battaglia, è lui a essersene esplicitamente chiamato fuori, rivendicando la sua scelta di candidarsi a fare esclusivamente il segretario del Pd, e giammai il capo del governo. Perché consapevole dei propri limiti e convinto che dunque avrebbe fatto male entrambe le cose, come ha dichiarato egli stesso. Ma non è di un bravo e attento amministratore dell’organizzazione-partito che hanno bisogno oggi l’Italia e l’Europa.
La segreteria Renzi, da questo punto di vista, merita molte critiche, quasi tutte le critiche possibili. Tranne una. Quella che Orlando gli ha rivolto contestando l’abitudine di risolvere i contrasti negli organismi dirigenti, al termine di ogni discussione, contandosi. Una critica che ha fatto riapparire davanti ai nostri occhi lo spettro di un passato che non rimpiangiamo, quando negli organismi deputati non ci si contava mai, perché quegli organismi non contavano niente. Perché tutte le decisioni che contavano venivano prese in riunioni informali dai soliti dieci capicorrente, che pretendevano di gestire il Partito democratico come nel nostro vecchio capitalismo famigliare si gestiscono le aziende, con un patto di sindacato, in spregio a ogni più elementare principio democratico e statutario.
Non si tratta di questioni che riguardino solo la vita interna del Pd. C’è qui un’intera visione della politica e della sinistra, che sarebbe bene rendere esplicita e sottoporre apertamente al giudizio dei militanti e degli elettori. Perché in fondo è la stessa filosofia che stava dietro a tutto quell’assurdo e spesso pretestuoso dibattito prima sulla data delle elezioni e poi sulla data del congresso, in cui sono riecheggiati molti degli argomenti già sentiti nel 2011, quando a una crisi politica e finanziaria ben più grave di questa si decise di non rispondere seguendo la regola aurea di ogni sistema democratico, e cioè chiedendo cosa fare agli elettori, ma pretendendo di risolvere prima tutti i problemi di testa propria e poi di ripresentarsi a loro per sentirsi dire bravi. Sappiamo già cosa risposero gli elettori nel 2013.
Non lo ricordiamo per riaprire ora il balletto sulla durata del governo Gentiloni, ma per sottolineare un punto di cultura politica. Perché al netto di tutti i tatticismi, le veline, le svolte e le controsvolte, la verità di tutto quel bizantino dibattito post-referendario era semplicissima, e vedeva schierate solo due squadre: quella di chi diceva che dopo una sconfitta così pesante, una sconfitta che imponeva un radicale cambio di direzione, a decidere la nuova rotta dovessero essere in ultima istanza, se non tutti i cittadini, almeno tutti i militanti, e dunque a loro bisognava chiedere cosa fare; e quella di chi diceva che no, che prima di rivolgersi a loro bisognava fare un sacco di altre cose. La squadra di chi, come Matteo Renzi, sosteneva che la nuova rotta non poteva tracciarla nessun leader e nessun gruppo dirigente chiuso nelle proprie stanze (a proposito di uomini soli al comando); e la squadra di chi diceva che no, che prima bisognava correggere questo e riscrivere quello, fare e disfare riforme, e nel frattempo piuttosto istruire lunghe e approfondite riflessioni sui valori della sinistra e della democrazia. Ma i valori della sinistra e della democrazia non possono essere solo oggetto di bei discorsi, pronunciati a metà pomeriggio, negli spazi e negli orari consentiti da tutto quell’insieme di piccole e grandi oligarchie che tengono l’Italia nella situazione in cui si trova. Se davvero si vogliono cambiare le cose, bisogna mettere nel conto di prendere anche qualche complimento in meno. Del resto, ai leader della sinistra capaci di spingersi oltre il recinto loro assegnato, in Italia, i fascisti di tutti i tempi non hanno mai gridato la bella accusa di portare avanti le loro idee. Per paradossale che possa sembrare, li hanno sempre accusati di essere dei traditori e dei venduti, addirittura di avere «tradito i valori della sinistra», come ci ha rammentato da ultimo Alessandro Di Battista nei suoi illuminanti ricordi famigliari.
In gioco, nel congresso del Pd, non ci sono dunque differenze di carattere, né differenze da poco. Non si tratta solo di tattica, alleanze, furbizie. Si tratta dell’idea stessa che abbiamo della funzione della sinistra e del suo ruolo nell’Italia di oggi. Un paese dove in tanti sembrano concepire la sinistra solo in due ambiti: il centro sociale e il salotto buono. L’irrilevanza di un rivoluzionarismo fatto di chiacchiere oppure l’ipocrisia di una responsabilità istituzionale che finisce per coprire sempre gli stessi interessi, salvo poi meravigliarsi se le vittime predestinate di tanta responsabilità decidono di votare per gli irresponsabili.
È il problema dell’Europa di oggi. Ed è un problema serio, che richiede una risposta convincente. Non ne vediamo in giro molte altre, obiettivamente, al di fuori del Partito democratico e della leadership di Matteo Renzi.