Per chi fa politica, la sensazione di avere cambiato in meglio la vita delle persone è rara, ma bellissima. Richiede un tempo infinito, passato a studiare, parlare, scrivere, lottare. La più piccola delle conquiste può richiedere anni, quando si tratta di smuovere interessi profondi o di promuovere un’idea diversa, un principio. Quando alla fine si riesce ad arrivare su quella cima, è un po’ come quando cammino sui sentieri delle mie montagne, in Piemonte: ci si sente stanchi, col fiato corto, ma di una stanchezza corroborante.
È stata questa la sensazione che ho provato martedì scorso, in commissione Lavoro, quando abbiamo finalmente inserito nel Ddl Autonomi la Dis-Coll – Disoccupazione per i Collaboratori – estendendola ai precari della ricerca. La Disoccupazione per i Collaboratori è uno di quegli strumenti dimenticati nell’era dell’esaltazione della flessibilità, quando si moltiplicarono le forme contrattuali e si lasciò esplodere liberamente il lavoro “parasubordinato”. Allora si diceva allegramente che i giovani avrebbero lavorato così, nello spirito dei tempi, un giorno qui un giorno là, senza bisogno di welfare perché il welfare era cosa vecchia e l’utopia della crescita senza interruzioni e senza traumi prometteva stipendi tali da poter pensare autonomamente ad assistenza e previdenza.
Pochi anni dopo quel mondo di favole veniva schiacciato nella morsa della crisi economica, creando una generazione di nuovi poveri, spesso altamente istruiti, senza prospettive per il futuro e senza alcun paracadute, nessuna tutela o sussidio di disoccupazione una volta scaduto il contratto. Tra di loro anche la più profonda delle storture italiane, i precari della nostra ricerca, i dottorandi e gli assegnisti che messo un piede fuori dall’Italia trovavano (e trovano) stipendi adeguati al loro lavoro e che nel nostro paese non erano considerati nemmeno come lavoratori. Borsa o assegno finito, addio, e col blocco del turn over nelle università del duo Tremonti-Gelmini non possiamo ancora stimare quante migliaia di ricercatori abbiamo perso, lasciato partire o costretto a fare altro.
Eppure la politica, anche a sinistra, ha faticato a rendersene conto. Per iniziare a rimediare agli errori del passato, c’è voluto il più grande ricambio generazionale – in Parlamento e anche nelle file del centrosinistra – che la Repubblica ricordi, ed è servita l’apertura di una stagione riformista che in meno di una legislatura può confrontarsi con tutto il percorso degli anni novanta. Dopo il Jobs Act, che ha ridotto le forme contrattuali e messo un freno ai lavori parasubordinati, siamo riusciti ad aprire il capitolo del lavoro autonomo non imprenditoriale. Per anni siamo stati ostaggio del centrodestra su questi lavoratori: sembrava che il loro unico problema fossero le tasse. Magari pagare le tasse non sarà per tutti bellissimo, come diceva Padoa-Schioppa, ma certo può diventare più semplice e meno frustrante, specialmente se ti assicura diritti e servizi. Questo è il principio su cui abbiamo lavorato: aliquote semplici (contributiva al 25% per la gestione separata con l’ultima Legge di Bilancio) e stesso welfare, ovunque sia possibile, dei lavoratori dipendenti. E quando diciamo stesso welfare, oltre che di maternità, congedo parentale, tutela della malattia e dell’infortunio, parliamo anche di disoccupazione. Se la Dis-Coll è entrata nel Ddl del lavoro autonomo, lo dobbiamo a un grande sforzo collettivo, dentro e fuori il Parlamento. Attorno a questo principio abbiamo lottato nelle aule sulle leggi di Bilancio, anno dopo anno, perché questa misura fosse garantita a decine di migliaia di lavoratori, spesso giovani e giovanissimi, che vedevano finire il proprio contratto di collaborazione.
Da oggi questa misura non dovrà più essere strappata con le unghie e con i denti nel marasma degli emendamenti. Dal primo luglio sarà stabile e lo sarà anche per i precari della ricerca italiana. Certo, non è ancora finita. Questo testo deve essere approvato al più presto e passare al Senato, perché diventi legge dello Stato. E c’è ancora tanto da costruire, per questi e per altri lavoratori che abbiamo pensato per troppo tempo potessero cavarsela da soli. È solo un altro passo, forse piccolo, sul cammino di questi anni. È una nuova cima scalata tra gli innumerevoli sentieri presi da questa legislatura. Di fronte a noi ce ne sono altre, infinite, più alte e più difficili da scalare. Ma ciò che conta di ogni cima è che ci consente di vedere, più limpida e chiara, la successiva.