Cara Left Wing,
dove eravamo rimasti? Ah sì: al rugby, all’attaccare e difendere in quindici, a uno per tutti e tutti per uno. Beh, allora visto che il Sei Nazioni non è ancora finito abuso della tua pazienza per raccontarti un’altra storia di questo sport.
Succede che l’Italia va a giocare contro l’Inghilterra a Twickenham, che è un po’ come concelebrare la messa a San Pietro (o almeno a Santa Maria Maggiore). E succede che davanti a ottantamila fedeli l’Italia decide di proposito di non giocare la ruck, cioè la mischia che si crea dopo un placcaggio per la conquista del pallone, che è un po’ come dire – mantenendo il paragone religioso – arrivare al Padre Nostro e dire «vabbè dai, questo lo conosciamo tutti, saltiamolo pure senza problemi». La scelta tattica della nostra nazionale ha causato un discreto sconcerto, per usare un pallido eufemismo: non tanto perché gli inglesi siano venuti su a «chi si astiene dalla lotta» con quel che segue, quanto perché la ruck è una delle basi del rugby e si porta dietro pure il concetto di fuorigioco. Se non hai visto la partita, ti dirò io che c’erano ottantamila persone con disegnata in faccia la classica espressione «eh?!». Anzi, ottantamila più quindici, cioè i giocatori inglesi in campo.
La nostra nazionale ha fatto qualcosa di illegale, di vietato dalle sacre regole della Rugby Union? No: non c’è un obbligo di andare a scornarsi in mischia dopo un placcaggio; è solo che “si è sempre fatto così”. Ma non è detto che “si debba sempre fare così”; e infatti gli azzurri sono scesi in campo con un proposito ben preciso: ‘o famo strano. C’è da sorprendersi che siano stati gli italiani a venirsene fuori con questa trovata? Tutto sommato no: secondo il più classico dei cliché siamo i maestri dell’arte di arrangiarsi, i prìncipi della deroga, i visconti della variante in corso d’opera. Siamo quelli che hanno avuto come ministro dell’economia il teorico della finanza creativa, quelli che passano metà del loro tempo a cercare di intortare Bruxelles sull’interpretazione delle regole di bilancio facendo schizzare la pressione arteriosa dei tedeschi e degli olandesi. Sta di fatto che, pur con un minimo di mal dissimulata ammirazione per la nostra sfrontata elasticità mentale, i britannici si sono subito messi a tavolino a studiare come cambiare le regole per impedire che qualcuno segua il nostro esempio e mantenere intatto quello che loro ritengono essere lo spirito del gioco: certo, a ben vedere è un sussiego bizzarro se si pensa che il rugby – secondo leggenda – è nato dal gesto folle di un ragazzo inglese che durante una partita di calcio decise di ribellarsi alle regole e correre a segnare stringendosi la palla al petto con le mani, davanti a compagni e avversari attoniti quanto il boss della Bundesbank, ed è altrettanto bizzarro che questa manovra sia quanto di più italiano si possa immaginare – tutto cambi perché niente cambi – ma tant’è: davvero, se non ci fossimo dovrebbero inventarci.
Post scriptum. Non ti stupirà sapere che l’allenatore della nostra nazionale è un irlandese, cioè uno che agli occhi degli inglesi è tipo un figlio della Vucciria; d’altra parte se dobbiamo farci governare da uno straniero che almeno sia uno con il quale siamo in sintonia.
Post post scriptum. In tutta questa vicenda comunque il mio personale idolo è un francese; si chiama Romain Poite ed è stato lui ad arbitrare la partita incriminata. A un certo punto i giocatori inglesi, in totale confusione, sono andati da lui a chiedergli spiegazioni su quello che stavano facendo gli italiani, e lui – senza fare un plissé, ha risposto: «I am a referee, not a coach». Tipo i nostri presidenti della Repubblica, diciamo.