Attenzione: questo pezzo può contenere spoiler. Se davvero pensate che una scissione sia ancora un finale sorprendente.
Iniziare col dire che il secondo non è mai bello come il primo, ci sta sempre bene. Ed è una premessa che ti permette di dire un po’ quello che ti pare, e difenderti dal pippone del cinefilo di turno con un salvifico «oh, io l’avevo detto in premessa che era meglio il primo». Ecco, questo fatto che era meglio il primo, è proprio la storia di Trainspotting 2, che ci racconta il secondo tempo della vita dei suoi protagonisti per dirci, in soldoni, che anche se tossici e scoppiati, giovani è sempre meglio che vecchi. Sensazioni appena fuori dalla sala: molto depressi e con tanta voglia di tornare a drogarsi. Perché è ovvio, se non ti sei drogato almeno una volta nella vita, inutile negarlo, non è che vai a vedere Trainspotting 2.
Insomma, un film sul passato e sulla nostalgia. Sul rancore e sul rimpianto. Su come eravamo e cosa siamo diventati. Un viaggio lungo il tempo che va dalle occupazioni del liceo dove si faceva girare la canna secondo la regola del cicileu al buongiornissimo su facebook alla soglia dei quarantacinque. Magari quella era eroina, ma il significato non cambia. Un declino così non può che riempirti di malinconia. E poi vecchie foto, flashback dei protagonisti ancora ragazzini, il romanticismo di una pera tra palazzine maleodoranti. Le domande di allora, troppe, che conservavano, senza ammetterlo, ancora la speranza di una risposta. E così il volto di quel neonato morto nella culla, che a molti di noi ha tolto il sonno, resta solo una ferita che ci ricorda che abbiamo fatto errori, e che questi errori ci definiscono e forse sono l’unica cosa che ci resta. E se ti tornano in mente al massimo ci bevi su, o torni a farti un’altra pera con l’amico d’infanzia. Nulla sembra più così atroce. Tutto è sbiadito. Pettinato. Puoi metterci tutte le scene di vomito che ti pare, ma il pulp non viene più. È così che funziona di solito la vecchiaia. Il secondo non è mai bello come il primo.
Cosa ne è stato di quei vent’anni? Alla fine «sono passati abbastanza inosservati», cantano Le luci della centrale elettrica. Uno sta in carcere e l’altro continua a drogarsi, uno gestisce il locale semivuoto della zia mentre si fa di cocaina e l’altro “ce l’ha fatta” tradendo i suoi amici – perché la lezione è che è così che ce la fai, di solito – e siccome «ha scelto la vita, la carriera la famiglia e il maxi televisore del cazzo», in preda alla fottuta noia di tutti quelli che ce l’hanno fatta, decide di guardarsi indietro, cercare gli amici, restituire loro il mal tolto, celebrare i momenti, organizzare rimpatriate.
Lui, proprio lui, è tutto il male del mondo. Non si fa così. Non c’è niente di più sbagliato. Perché si sa che in questo modo si finisce per perdere di vista il domani. E tutti voi che avete capito dalla prima riga (non era difficile, del resto) che questo è un pezzo sulla storia della sinistra, lo sapete meglio di me. Se resti in attesa che il passato prima o poi torni, qualcuno, nel frattempo, si prenderà il futuro. Lasciando a noi foto ricordo, bandiere rosse e bene che vada la fama dei nostri manoscritti, che nel caso specifico non sono neanche un granché. Per rimanere fregati ancora una volta, come sempre, proprio quando meno ce lo aspettavamo. Le ragioni? Non ci sono ragioni. Chi ha bisogno di ragioni quando dispone di dosi praticamente illimitate di Porta a Porta e Piazzapulita con cui riempire il vuoto delle proprie notti, fino a dimenticare persino chi è?