Sono seduto in treno. Torno dal Lingotto e ho sei, piacevolissime ore di studio dinanzi a me – e con me la più classica delle sfogliatelle che non immaginavo di poter acquistare alla stazione di Torino Porta Nuova. (Sono meridionale e me ne vanto). Il vagone è pieno. Di fronte a me è seduto un giovane omone grande e grosso, che oltre ad essere grande e oltre a essere grosso è pure, pensa un po’, di colore nero. La qual cosa a Torino non si notava tanto, e neppure a Milano, ma a Bologna si è cominciata a notare molto di più, perché è salita sul treno una esile signora di mezza età – che le mie abilità investigative mi consentiranno poi di identificare in una docente ordinaria dell’ateneo felsineo – la quale ha con sé, com’è suo diritto, un bagaglio. Di solito, se hai un bagaglio e non c’è posto negli appositi spazi, cerchi di sistemarlo alla bell’e meglio tra i sedili; se invece è un bagaglio ingombrante provi nella bagagliera che si trova agli estremi della carrozza; e se neanche questa soluzione è praticabile ti rassegni a tenerlo vicino a te, nel corridoietto. Difficilmente guardi il tutorial pubblicitario della compagnia ferroviaria in cerca di soluzioni. Ancor più difficilmente, però, prendi la decisione adottata dalla professoressa bolognese. Che guarda sopra la testa dell’omone le due valigie già sistemate nella cappelliera, squadra dall’alto in basso l’omone (approfittando del fatto che è temporaneamente in piedi, mentre l’omone è seduto), e poi schiocca con tono secco e imperativo l’ordine di fare spazio alla sua borsa. È evidente che si è accorta che l’omone è di pelle scura.
Ora, io non so se esista un regolamento che limiti il numero di bagagli che è possibile sistemare nella carrozza, e neppure se ogni passeggero abbia o no diritto a un certo spazio nella cappelliera. Non so se valga piuttosto il diritto all’occupazione di chi arriva prima e neppure so da chi debbano essere risolte eventuali controversie. So però che non c’era un’ombra di gentilezza o di pazienza nel tono usato dalla elegante collega. Per favore, per cortesia, mi perdoni, mi scusi, la prego, di grazia: niente. Lei era semplicemente infastidita dal fatto che per la sua borsa non vi fosse spazio, e infastidita pure che a togliergli quello spazio, che evidentemente riteneva le spettasse, fosse un omone grande e grosso, con una sua propria pigmentazione cutanea. Può darsi che mi sbagli, naturalmente; può darsi pure che la professoressa volesse far valere il sacrosanto principio democratico «una testa, un bagaglio sopra la testa» mentre l’omone ne aveva prepotentemente due, ma siccome stavamo ripartendo da Bologna col trolley, che è quello che Renzi ci aveva detto al Lingotto, non ho potuto fare a meno di notare la cosa. E di considerare fra me e me che è proprio dura, se una persona che avrebbe tutti gli strumenti culturali, giuridici, morali, politici, per praticare quel minimo di accoglienza che consiste nell’essere gentili col proprio vicino di viaggio, mantiene invece un simile atteggiamento di classe (classe nel senso di Marx, non nel senso della noblesse qui oblige).
Mi si dirà che il razzismo inconsapevole non c’entra nulla con il bisogno di sicurezza. E invece io penso proprio che c’entri: c’entra forse dal pleistocene fino ad oggi. (Se volete essere realisti e non vi piacciono le anime belle, siatelo fino in fondo e ammettete che il razzismo c’entra eccome). È chiaro peraltro che non sarà una condanna morale, e neanche il mio sottilissimo filo di ironia, a risolvere il problema, per cui vanno bene tutti gli inviti alla gestione ordinata dei flussi migratori, tutte le difese della legalità, tutti gli accordi e le convenzioni internazionali, e insomma tutti gli strumenti che occorrono per governare il fenomeno. Concedo totum. Però per favore: non chiedetemi di pensare che questi migranti son venuti a togliere i nostri posti sulle cappelliere, perché proprio non ce la faccio a pensarlo. Perché i numeri sono quelli che sono, i trend demografici sono quelli che sono, e anche se gli italiani, finalmente all’altezza della loro fama, si sbizzarrissero nelle notti della primavera ormai incipiente non ce la farebbero comunque ad assicurare al nostro Paese la popolazione in età da lavoro che c’è adesso.
C’è tuttavia un problema di integrazione (identità, comunità, radici cristiane dell’Europa)? Certo che c’è. Ci mancherebbe pure che non ci fosse: vorrebbe dire che siamo indifferenti a chi siede al nostro fianco su un treno. Il che nei fatti non è vero, che si tratti di spaventosi omoni neri o di signori brizzolati dall’aspetto un po’ british (mi son fatto l’idea che sarebbe stata la soluzione più gradita alla professoressa, nonostante la Brexit). C’è poi un problema di più alti tassi di criminalità legati alla presenza straniera? C’è pure quello, dati alla mano. Ma i dati dicono pure che più integrazione significa più sicurezza, non meno. Che gli stranieri non vengono per delinquere, altrimenti non si capisce perché, una volta integrati, smettono di farlo. Perciò l’ultima cosa che conviene fare, se si vuole fare una politica intelligente in materia di immigrazione, è clandestinizzare il fenomeno. Siamo realisti un’altra volta: rimuovere il problema non serve, perché, come insegna la psicanalisi, il rimosso comunque ritorna. Ed è alle origini delle nostre nevrosi.
Post Scriptum. Com’è finita con la professoressa? Il posto in cappelliera si è trovato, e io mi sono mangiato la sfogliatella.