Alfredo Reichlin era un uomo che amava la politica. E qui, se fosse stato lui a parlare, da superbo oratore qual era, avrebbe fatto senz’altro una pausa molto studiata, per poi aggiungere: già, ma che cos’è la politica? Un’attività pratica o una materia di studio, lotta o pensiero, filosofia o prassi? Intellettuale marxista, dirigente comunista di scuola togliattiana e tendenza ingraiana, Reichlin avrebbe probabilmente risposto, con Gramsci, che la politica è l’una e l’altra cosa, perché è storia in atto. Non per niente, la sua passione per la politica era tutt’uno con la sua passione per la storia d’Italia, e la sua idea di partito inseparabile dalla funzione nazionale che le classi lavoratrici, grazie al partito, avrebbero dovuto assolvere in quella storia, in quel disegno più grande che è stato l’oggetto costante della sua riflessione, dei suoi dubbi e delle sue preoccupazioni.
Questo intendeva quando parlava di «Partito della Nazione», avendo in mente non certo la Dc dei due forni, ma semmai il Pci della svolta di Salerno e della Costituente, che in un attimo rovesciava decenni di settarismo e radicalismi inconcludenti in cui si era perduta l’intera sinistra antifascista, mettendo il comunismo italiano alla base di una grandiosa opera di ricostruzione nazionale. Questo era il modello che aveva sempre davanti agli occhi, quando parlava della necessità di unire gli italiani, di porre lo sviluppo del paese su basi più larghe, di una svolta capace di cambiare il rapporto tra dirigenti e diretti. Non parlava di astrazioni, ma di un’esperienza concreta e vivissima nel suo ricordo: che cos’era l’Italia all’epoca della liberazione – un paese contadino, dove l’analfabetismo era diffusissimo – e cosa sarebbe stata dopo. Che cosa sarebbe stata capace di diventare nel giro di una generazione appena. «Oggi forse si fatica persino a immaginarlo – diceva in una delle sue ultime interviste – ma io l’ho vista coi miei occhi, l’Italietta, allora. E me lo ricordo, in Puglia per esempio, il passaggio da quel mondo, dove il dipendente stava “a giornata”, a quello del lavoratore che diventa cittadino, con dei diritti, con un orario di lavoro. Il passaggio dall’impiego “da sole a sole”, come si diceva allora, all’idea che il lavoratore non è una cosa, è il titolare di un contratto. Tutto questo è cambiato in un tempo rapidissimo, e a garantire questo cambiamento è stata la tenuta di quel patto costituzionale. È stata la politica unitaria».
Il vero salto, proseguiva, è quello che avviene «non solo nella storia d’Italia, ma nella storia degli italiani», che si riconoscono l’un l’altro su un terreno nuovo, si abbracciano e combattono insieme. «Il salto di qualità antropologico, ecco quello a cui io ho assistito, e quello che da allora mi detta la mia coscienza: un’idea nuova del popolo italiano. È il passaggio da plebe a nazione». Questo «salto antropologico» era stato possibile grazie a una svolta politica, grazie alla politica unitaria e costituzionale del Pci di Palmiro Togliatti e della Dc di Alcide De Gasperi. Il benestare delle due principali potenze del nascente bipolarismo mondiale era condizione indispensabile, ma certo né scontata né sufficiente, per evitare scenari assai più foschi, per i quali non mancavano gli incendiari, dentro e fuori i confini nazionali. Fu la svolta di Salerno a scongiurare la «prospettiva greca» e a rendere possibile il miracolo della rinascita democratica dell’Italia. A cominciare da una Costituzione, come ricordava sempre Reichlin, scritta da quelli che erano fuori da tutto: i cattolici, che erano rimasti fuori dal Risorgimento, i socialisti e i comunisti, che erano emigrati, esuli o venivano dalla lotta in clandestinità. Una Costituzione che non è stata fatta dalla classe dirigente, uscita completamente screditata dalla sua alleanza con il fascismo. «Qui c’è un salto nel rapporto tra dirigenti e diretti, è questo che cambia, e cambia anche perché noi facciamo una grande politica unitaria. Perché l’Italia è un paese complicato e si governa solo con una grande alleanza». E qui stavano anche le ragioni profonde dell’adesione di Reichlin alla politica del compromesso storico di Enrico Berlinguer, che proprio a quel primo grande compromesso togliattiano si richiamava esplicitamente.
A questo schema, a questa idea di una svolta politica capace di liberare energie nuove, ridare motivazioni e forza a un popolo sconfitto, ricostruire legami, riempire di senso una vita, Reichlin è rimasto sempre fedele. Da dirigente politico e da direttore dell’Unità, da intellettuale e da uomo di partito, non ha mai smesso di inseguire le tracce di quella luminosa esperienza, che doveva apparirgli davvero come la realizzazione della riforma intellettuale e morale immaginata da Gramsci. Il passaggio da plebe a nazione. Un rovello che si era fatto tanto più assillante nei suoi ultimi libri e nei suoi ultimi articoli, di fronte al rischio sempre più concreto di un processo contrario, di una «regressione civile», come disse una volta l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Il passaggio da nazione a plebe.
Con questo spirito e con queste preoccupazioni, Reichlin è stato a lungo, a sinistra, più che una coscienza critica, il garante di una continuità storica. L’uomo che più di ogni altro, nelle alterne vicende del postcomunismo italiano, ha continuato sempre a indicare ai compagni la meta di quella funzione nazionale che aveva visto risplendere al meglio proprio negli anni della sua giovinezza. Quegli anni così difficili eppure così entusiasmanti, dalla lotta partigiana nella Roma occupata dai nazisti ai banchi del Parlamento, dalla miseria del dopoguerra ai fasti del miracolo economico. All’esempio di quegli anni indimenticabili, al modello di quella stagione irripetibile della storia d’Italia, e della sinistra, Alfredo Reichlin ha continuato sempre a guardare, sola stella polare su cui non ha mai smesso di orientare il suo cammino e ispirare le sue prese di posizione. Senza mai rassegnarsi, senza mai smettere di ricercare nell’oggi almeno un riflesso di quella luce, anche nei giorni più bui. Possa ritrovarla ora. Possiamo ritrovarla noi tutti.