Il contemporaneo svolgersi dell’assemblea nazionale di Mdp a Napoli e dei congressi di circolo del Partito democratico ha reso evidente come si stiano definendo due diverse forze di sinistra che si preparano alle prossime elezioni in maniera radicalmente differente. Pur partendo da un assunto comune, ovvero il fatto che il risultato del 4 dicembre archivi non solo la riforma costituzionale, ma anche il sistema maggioritario bipolare e di conseguenza la Seconda Repubblica, si propongono al paese due ipotesi molto diverse di riorganizzazione del sistema politico. Quella incarnata dalla vittoria di Matteo Renzi nelle votazioni degli iscritti al Pd si può riassumere nella formula, usata anche nella mozione congressuale, di «vocazione maggioritaria con il proporzionale». In altre parole, presentare alle elezioni una proposta di governo incentrata su un Partito democratico che definisce programma, leader e squadra in virtù del proprio congresso.
Un modello di stampo europeo, che interpreta la legge elettorale proporzionale con un equilibrio tra rappresentatività e governabilità, in cui il Pd punta alla soglia del 40 per cento alla Camera per avere i numeri per governare da solo, e comunque si propone di essere la prima forza politica del paese e di esprimere la guida del governo. La proposta di Mdp, per quel che si comprende dal ragionamento di Massimo D’Alema (che chi scrive ritiene di gran lunga il migliore di quella compagnia e quindi destinato a influenzarne la linea politica anche senza ruoli formali), consiste nel presentarsi all’appuntamento elettorale come forza di condizionamento del Partito democratico dopo le elezioni. In sostanza, ci si dice che dopo le elezioni il Pd dovrà scegliere se allearsi con il centro moderato o con loro. Ci si spiega che il Pd, non raggiungendo il 40 per cento per governare da solo, dovrà scegliere: se si allea alla propria destra, per Mdp si apre una prateria; se si allea propria sinistra, Mdp dispone di un “expertise” di governo ben diverso dai vari Bertinotti, Turigliatto e Vendola, che consentirà a un nuovo centro-sinistra di non frantumarsi come in passato per gli ideologismi e i velleitarismi della sinistra radicale. Il ragionamento, va detto, ha un suo fondamento, e anche un suo fascino, che spiega perché parecchi quadri politici di tradizione Ds si stiano orientando in quella direzione.
Educati come fummo al realismo politico, però, non possiamo non vedere il paradosso di questa posizione: la prospettiva di una alleanza post-elettorale con il Pd che sia maggioranza in Parlamento esiste solo a condizione che alle elezioni il Pd risulti ampiamente il primo partito. E il Partito democratico potrà essere il primo partito, sopra i cinquestelle, solo se la rinnovata leadership di Renzi sarà in grado di mobilitare un campo ampio di forze sociali e politiche di centrosinistra, sollecitando un voto utile per governare l’Italia, per sconfiggere destre e populismi. Detto in altri termini: solo se il Pd si presenta come una forza a vocazione maggioritaria che interpreta fino in fondo la sfida per il governo, anche con il sistema elettorale proporzionale, senza farsi tirare per la giacchetta sul tema delle alleanze, può ambire a una massa critica sufficiente per guidare di nuovo il paese. E chi pensa che in questo concreto scenario, dopo le elezioni, sia preferibile un’alleanza del Pd con le forze alla sua sinistra, oggi deve stare ben attento a non scavare solchi non recuperabili, a cominciare dal giudizio sul congresso del Partito democratico e sul gruppo dirigente che ne scaturirà.
Si vanno definendo quindi due forze politiche di sinistra molto diverse, sia per dimensioni che per programmi, ma c’è una sola possibilità che la sinistra italiana sia al governo del paese nella prossima legislatura, e passa per un successo del Partito democratico. Insomma: due sinistre, una sola linea politica (la nostra).