Domanda: che cosa lega il modo in cui il Fatto quotidiano descrive un’ipotesi gravissima come la manipolazione delle intercettazioni contro Tiziano Renzi nel caso Consip – «Cade un indizio su babbo Renzi (ma restano in piedi tutti gli altri)» – e la scoperta che i due «giornalisti» che da giorni inseguivano sotto casa Mario Orfeo, chiedendogli conto del modo in cui il suo tg parlava dei cinquestelle, erano in realtà membri dello staff del gruppo parlamentare dei cinquestelle medesimi? Ve lo dico io: che ci siamo abituati. Anzitutto dal punto di vista estetico. Ci siamo lentamente abituati alle forme e al linguaggio di questo genere di rappresentazione, che in altri tempi si chiamavano gogna, depistaggio, caccia alle streghe, mentre ora si chiamano retroscena e giornalismo d’inchiesta, satira e controinformazione. È un format che conosciamo.
All’origine di tutto c’è un guasto profondo nel nostro modo di raccontare ed esercitare il potere, fondato sul primato dell’insinuazione. Cade un indizio, ma che fa? Restano comunque in piedi tutti gli altri. Indizi, attenzione, non prove. Basta dunque che le accuse – gli indizi – siano sufficientemente numerosi, o sia comunque garantito un certo ricambio, e non ci sarà smentita, dimostrazione o argomentazione razionale che possa nulla. Come in ogni programma televisivo che si rispetti, è tutta una questione di ritmo. Chi si ricorda più di Tempa Rossa? Ci si sono dimessi ministri, e allora? Cade un’inchiesta, ma che fa? Restano sempre in piedi tutte le altre.
Certo che c’è un gigantesco problema che riguarda la magistratura. Certo che c’è un gigantesco problema che riguarda la politica, e anzitutto la sinistra, che è stata a lungo l’incubatrice di una simile, distorta visione della lotta per la giustizia e per la legalità. Ma c’è anche qualcosa di più antico e di più profondo, che ai tempi di Tangentopoli è riemerso nella forma delle inchieste del Gabibbo e del vice-Gabibbo, che nel tempo è diventato un modo di raccontare e distorcere i fatti, che è diventato un format. Peggio, è diventato uno stile, inconfondibile, che si riconosce soprattutto nelle piccole cose: nel programma di approfondimento introdotto dal comico che prende per il culo i politici in studio prima ancora che abbiano aperto bocca; nel programma comico dove gli inviati interrogano deputati all’uscita dal parlamento su nozioni di cultura generale a caso; nel talk show serale in cui un finto pubblico viene aizzato contro il politico in studio dallo stesso inviato (questa forse bisognerebbe toglierla dal campo delle piccole cose e metterla in quello delle grandi, eppure non sembra avere suscitato chissà che scandalo).
Si dirà che qualcosa del genere esiste in tutto il mondo. Il problema è che nel resto del mondo esiste anche un giornalismo, una televisione, un mondo della cultura e anche dello spettacolo che a tutto questo si contrappone, che dà battaglia in nome di altri principi e di un’altra idea della democrazia e della convivenza civile. E in Italia no. Ma a pensarci bene, purtroppo, è perfettamente naturale che sia così: dalla crisi di un intero sistema a cui negli anni novanta in tanti abbiamo assistito invocando la ghigliottina vestiti da Gabibbo, un quarto di secolo dopo, consumata anche la parabola berlusconiana, sorge una nuova repubblica in cui protagonista indiscusso della politica è il movimento fondato da un comico. E nuova festa nazionale un gigantesco, illusorio, apotropaico Vaffa Day.
C’è poco da fare. Contro i nuovi squadristi mascherati da pagliacci nessuna forza politica, da sola, riuscirà a sottrarsi al gioco della delegittimazione e della mostrificazione reciproca, all’eterna giostra dell’insinuazione sistematica e del pettegolezzo seriale. Sono i giornalisti e gli scrittori, gli intellettuali e gli imprenditori, i cantanti e gli attori – e anche i comici, sissignore – che dovrebbero prendere la parola per fermare questa deriva. O meglio, che dovrebbero cominciare a utilizzare altre parole, se ne sono capaci.