Da sempre, nella sinistra italiana, ci sono due modi di considerare e quindi di celebrare la Liberazione. Il primo è il modo di chi pensa che la vittoria dell’antifascismo sia stata piena e definitiva, perché non è stata semplicemente militare, ma storica e politica. È il modo di chi vede nella costruzione della Repubblica democratica e nei successivi settant’anni di pace, libertà e benessere la prova che quella battaglia è finita una volta per tutte, ed è finita nel modo migliore. L’altro è il modo di chi, al contrario, ha considerato sin dall’inizio la vittoria dell’antifascismo come parziale, incerta e sempre reversibile, se non addirittura come mutilata. È il modo di chi, proprio nella costruzione della Repubblica democratica, ha visto a lungo non già il compimento e il trionfo degli ideali della Resistenza, ma addirittura il loro tradimento. Tra questi due modi opposti di guardare al 25 aprile, che convivono nella sinistra sin da allora, si mostra il discrimine fondamentale tra due diversissimi modi di guardare all’Italia: come a un paese irriformabile, popolato solo da corrotti buoni a nulla, o come a un paese che già molte volte in passato, proprio quando la situazione sembrava disperata, ha dimostrato di sapersi risollevare e rinascere.
Uno dei meriti storici del Partito comunista italiano e in particolare di Palmiro Togliatti resterà sempre l’avere isolato e marginalizzato quella corrente, forte anche nel movimento partigiano, che considerava la lotta di liberazione nazionale dai nazifascisti come una prima tappa, e forse nemmeno la più importante, sulla strada della rivoluzione. Obiettivo che in termini meno alati e più concreti si sarebbe tradotto in una più lunga e sanguinosa guerra civile, per decidere i caratteri e la direzione della nuova Italia con la forza delle armi, anziché dei voti.
Questa idea della Resistenza come missione incompiuta sarebbe sopravvissuta a lungo, ben oltre gli stessi confini dell’ideologia comunista. Attraverso il mito della Resistenza come occasione mancata della grande rigenerazione morale e politica della nazione, larga parte della cultura azionista e dell’estremismo di sinistra ostile alla politica unitaria del Pci avrebbe ripreso, in diverse stagioni della storia repubblicana, tutti i luoghi comuni della polemica antitogliattiana: contro l’amnistia ai fascisti, contro la scelta di votare l’articolo 7 in Costituente per l’inclusione dei patti lateranensi, contro tutti i passaggi di quella strategia che puntava non già a tenere aperte le tante linee di frattura su cui gli italiani si erano combattuti, ma a chiuderle. Non già ad alimentare l’idea di un esercito ingiustamente defraudato delle sue conquiste, da tenere pertanto in perenne stato di mobilitazione e pronto alla riscossa, ma di un popolo vittorioso che poteva finalmente tornare a casa. E poteva farlo serenamente e gioiosamente, perché la Repubblica democratica disegnata dalla Costituzione non era il compromesso al ribasso che occorreva mandar giù in attesa della rivincita, ma l’obiettivo più alto per cui quegli uomini si erano battuti.
Nelle fasi più buie della vita repubblicana, quando stragi neofasciste e depistaggi orchestrati da apparati deviati hanno allungato sull’Italia l’ombra di un impossibile ritorno al passato, a sinistra ha ripreso a farsi largo, con la retorica dell’antifascismo militante, quella vecchia idea della Resistenza come rivoluzione incompiuta. Quando un simile equivoco non ha prodotto derive sanguinose, come nel caso del terrorismo brigatista, ha prodotto comunque esiti del tutto paradossali, finendo per confondersi con gli argomenti delle ricorrenti campagne di delegittimazione delle istituzioni e dei partiti che avevano scritto la Costituzione. Un sentimento diffuso, e si capisce, tra i nostalgici del regime che si nascondevano dietro le facili parole d’ordine del qualunquismo.
Resta invece misterioso come le idee, gli argomenti e persino il lessico della destra qualunquista e neofascista che contestava i partiti dell’arco costituzionale abbiano potuto diventare, nel corso degli anni, le parole d’ordine dell’antipolitica di sinistra. Vale a dire di quel vasto e variegato fronte politico e intellettuale che pure si vorrebbe presentare come il massimo custode e difensore della Costituzione. Costituzione che resta invece il frutto più maturo della politica unitaria portata avanti con coraggio da grandi partiti popolari, come la Dc e il Pci, e da grandi uomini politici, come Alcide De Gasperi e Palmiro Togliatti. E grazie alla quale il 25 aprile rimane una festa in cui tutti gli italiani possono riconoscersi, senza prestare attenzione alle polemiche pretestuose o alle esasperazioni ideologiche fuori tempo massimo di frange, fortunatamente, sempre più minoritarie e insignificanti.