Mentre le menti migliori della nostra cultura liberale discettano del contenuto di intercettazioni manipolate, e/o illegalmente effettuate, e/o illegalmente pubblicate, che riguardano l’ex presidente del Consiglio, e prima che una procura minore decida di sottoporre a waterboarding la nonna ottantasettenne già interrogata ieri dal Corriere della sera, sarebbe forse il caso che Matteo Renzi si ponesse una domanda. La questione è semplice: quanto si può andare avanti così? Domanda semplice che se ne porta dietro, però, una più complicata e sgradevole. E cioè: come ci siamo arrivati, a questo punto?
Capiamoci: non sto parlando delle sorti della democrazia, della libertà di stampa o dello stato di diritto, che sono pessime da oltre venticinque anni, per responsabilità diffuse di cui abbiamo discusso tante volte e di cui, purtroppo, non ci mancherà occasione di discutere nei prossimi venticinque anni. Sto parlando della situazione in cui si trova oggi la sinistra, cioè il Partito democratico (tralascio intenzionalmente gli ultimi compagni di strada di quel grande leader della sinistra che a forza di intercettazioni fu azzoppato già ai tempi del caso Unipol, ormai schierati sulle posizioni dei populisti grillini persino su questo).
Il problema è che il Partito democratico appare oggi sotto assedio. E il suo segretario appena trionfalmente rieletto, Renzi, sembra sempre più all’angolo: le notizie dell’avvenuta manipolazione delle intercettazioni usate contro di lui non scalfiscono gli opposti opportunismi della grande stampa liberale e della piccola stampa populista. Telegiornali, dibattiti televisivi e librerie si contendono anticipazioni e intercettazioni di Ferruccio de Bortoli e Marco Lillo. E tutto questo mentre l’Unità in edicola semplicemente non ci va più, perché i suoi giornalisti sono (siamo) in sciopero a oltranza, dopo che l’editore ha messo nero su bianco l’intenzione di non pagare gli stipendi fino a quando la redazione non convincerà alcuni ex colleghi a rinunciare ai risarcimenti ottenuti in seguito a una causa vinta in tribunale.
A quanto sembra il segretario del Pd ripone grande fiducia in «Bob», la piattaforma informatica da cui dovrebbe partire la controffensiva democratica sul web. Scelta maturata dalla convinzione, certamente fondata, che è anzitutto sulla rete che si è perso il referendum, e che si perde ogni giorno la battaglia delle idee, delle emozioni e delle coscienze. Giustissimo. Mi permetto però di far notare che la battaglia referendaria non la si è persa soltanto lì, ma anche in quei reparti saggistica delle librerie dove oggi si trovano solo diverse sfumature di populismo. E la si è persa più in generale nel dibattito pubblico, sulla stampa e in tv, per una ragione prima di tutte le altre: perché non si è nemmeno provato a suscitare un dibattito diverso, a cercare diversi interlocutori, ad alzare la posta e il livello del confronto. Si è preferito fare, pigramente, il solito vecchio gioco secondo la logica amico/nemico, o con me o contro di me, con il risultato di ritrovarsi circondati di pessimi amici nella fase ascendente e di soli nemici alla prima, vera sconfitta. Cioè all’indomani del referendum.
Piccolo esempio dal prossimo Salone del libro, dove domenica sarà possibile acquistare in anteprima il nuovo libro di Lillo, ascoltando anche un bel dialogo tra Marco Travaglio e Piercamillo Davigo dal significativo titolo «la nostra idea di giustizia». Così reclamizzato sul Fatto quotidiano di lunedì scorso: «Un movimento d’opinione che difende alti principi e sacri valori: il garantismo, la presunzione di innocenza, la separazione dei poteri, il primato della politica. È il Partito dell’Impunità». Eccola qua, la loro idea di giustizia. E il bello, anzi il brutto, è che questo ampio schieramento politico-intellettuale, che va da Marco Travaglio a Gustavo Zagrebelsky, dal piccolo al Grande Inquisitore, è riuscito a farsi passare per il fronte che difendeva la Costituzione e i suoi più alti valori. Primi tra i quali, lo ricordo per gli smemorati, sarebbero per l’appunto la separazione dei poteri, la presunzione d’innocenza e il primato della politica (quanto a «garantismo», riferendosi il termine, letteralmente, al rispetto delle «garanzie costituzionali», dovrebbe bastare la parola).
Sbaglierò, ma la mia impressione è che al progressivo incanaglimento del nostro dibattito pubblico, e alla sua storica carenza di pluralismo, la sinistra non potrà rispondere con un incanaglimento uguale e contrario (strada del resto, come accennato, già tentata nel recente passato, e con scarsissimo successo), ma solo ponendosi un obiettivo più alto, e per così dire sistemico. Perché il pluralismo si alimenta del pluralismo, e non di contrapposti unilateralismi. Ai produttori di fake news e alle macchine del fango – virtuali, catodiche o cartacee che siano – non si risponde con una narrazione propagandistica simmetricamente unilaterale, ma con la capacità di ricercare e suscitare altri e migliori interlocutori, persino altri e migliori avversari, perché nel dibattito pubblico gli avversari sono tanto condizionati da noi quanto noi lo siamo da loro. Sta a noi dunque scegliere se farci trascinare nella palude delle insinuazioni e delle calunnie in cui sguazzano loro, o tirarcene fuori tutti insieme.
È questa forza, questa credibilità, questa intelligenza – e anche questa pazienza, perché ce ne vorrà tanta – che oggi sembra mancare al Partito democratico. In altri tempi, la si sarebbe definita probabilmente una crisi di egemonia, ma non c’è bisogno di utilizzare termini desueti che finirebbero per alimentare vecchie polemiche e richiedere noiose precisazioni, con il rischio di svegliare dal loro placido sonno i tanti intellettuali liberali che in questa bella Italia continuano a dormire tra due guanciali.