Che dire del fenomeno delle intercettazioni effettuate dentro un processo legale che illegalmente (come per lo scambio fra i due Renzi) si trasferiscono al processo mediatico? Da Lilli Gruber, ieri sera, Brunetta condannava l’illegalità, Travaglio non la negava in diritto, ma ne vedeva spostata la soglia di fatto, in un mondo in cui la duplicazione e propalazione di documenti è alla portata tecnica di chiunque. Nulla di nuovo: siamo al solito confronto fra la certezza del diritto («una norma va rispettata finché non viene cambiata») e i mutamenti del mondo che ne svuotano l’applicabilità. Anche se dipende: ci sono settori, come il proibizionismo nel campo delle droghe, dove la norma pur palesemente idiota è applicata perché conviene a chi ci guadagna e ai suoi molti complici, mentre i carcerati sono una moltitudine priva di identità e forza contrattuale. Mentre il segreto sulle intercettazioni è stato di fatto liquidato contando sul potentissimo favore dell’opinione pubblica, cui quei dialoghi rubati paiono igienici squarci negli arcani del potere, nonché sulle conseguenti convenienze degli editori che con quei materiali, che praticamente si limitano a redistribuire, raccolgono audience sicure a costo minimo. Il medesimo abbinamento di fattori che ha moltiplicato, tanto per dire, i talk show casalinghi e le telenovelas prodotte all’estero.
Su queste premesse, verrebbe da dire, anche quel che resta di formale proibizionismo relativamente alle intercettazioni sta servendo solo a tenere alto il prezzo dei favori clandestini di questo o quel funzionario fellone a pro’ del reporter da faldone e del giornale-ventilatore che ne diffonde erga omnes i materiali. Stando così le cose, la Storia sta probabilmente dalla parte di Travaglio: giochiamo ad acchiappare i funzionari felloni, se ci riusciamo, ma rassegniamoci al fatto che quando i buoi sono scappati è inutile rincorrerli.
Se il lavoro è, dunque, assicurato a pro’ dei media-ventilatori, la persona di rilievo esposta al rischio del pubblico ludibrio dovrà rassegnarsi ad impiegare proprio nelle conversazioni private una lingua formale e, per così dire, univoca, sicché il senso delle cose che dice regga al mutamento dei contesti di ascolto. Perché, coi tempi e i mezzi tecnici che corrono, una personalità pubblica parla sempre, potenzialmente, all’opinione pubblica piuttosto che all’interlocutore occasionale. Per questo l’assenza di “complice confidenzialità” ci è parso il più lodevole aspetto della lingua adoperata da Renzi nel rivolgersi al padre. E così, spinta dalla inevitabilità della ventilazione mediatica di qualsiasi cosa detta – non importa se anche fatta – spingerà la politica alla “gravitas”, anche nella comunicazione privata e riservata. La stessa politica che per contro dovrà insistere con la chiave ruffiana del linguaggio schietto proprio nelle occasioni di comunicazione pubblica della democrazia empatizzante.
Tutti gli altri, la gente comune, potranno invece continuare a fare l’opposto: mostrarsi seri in pubblico e cazzoni in privato. Un indizio in più per distinguere il politico dall’elettore.