Oggi all’ordine del giorno ci sono le sentenze del Tar sugli annullamenti delle nomine di alcuni dei direttori di musei Statali avvenute a seguito di un bando pubblico del ministero della Cultura del gennaio 2015. La discussione si è accesa immediatamente tra coloro che «io l’avevo detto», quelli che «il solito Tar del Lazio» e chi «la sentenza dimostra il fallimento della riforma Franceschini». Come spesso accade in queste circostanze, molti interpretano i fatti attraverso filtri che mettono insieme simpatie e antipatie, ambizioni e frustrazioni, preconcetti e speranze per il futuro.
Tuttavia la questione, per quanto tecnicamente complessa, è anche drammaticamente semplice. Il Tar ha emesso due diverse sentenze. La prima afferma che la procedura di selezione si sarebbe svolta in maniera non conforme alle regole (gli orali a porte chiuse e l’attribuzione di punteggi) e, di conseguenza, determina la decadenza di 4 direttori; la seconda che in Italia, secondo le leggi vigenti, uno straniero (di un solo direttore decaduto si tratta in effetti sui sette nominati) ancorché comunitario, non può diventare dirigente pubblico. E in nessuno dei due casi, va detto, c’entrano molto le modalità con cui sono stati stilati i bandi.
In questa vicenda la vera sorpresa non sta nel fatto che si siano seguite in un pubblico concorso procedure ritenute irregolari (a ciascun concorso pubblico seguono centinaia di ricorsi ai Tar, di cui alcuni accolti e altri no) quanto nel fatto che nell’Italia ancora europeista, che vede partire tanti giovani con il programma Erasmus, che conosce l’importanza di fare esperienza di lavoro e magari anche carriera fuori dal proprio paese, in questa Italia uno straniero, comunitario o meno, non può fare il direttore di un museo pubblico. E questo non tanto (o almeno non solo) per la più o meno strisciante ostilità di chi nell’amministrazione o nel mondo del patrimonio culturale italiano vede ulteriormente restringersi le già remote possibilità di dirigere un grande museo, ma perché il decreto legislativo 165 del 2001 (che detta «Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche») stabilisce che solo gli italiani possono accedere a posti di lavoro che implichino esercizio diretto e indiretto di pubblici poteri. Anche se secondo alcuni – Sabino Cassese tra gli altri – il Tar Lazio però avrebbe trascurato le disposizioni sulla libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione europea. In vigenza di quella normativa non era necessario che la legge 106/2014, il cosiddetto decreto Franceschini, esplicitasse la deroga al decreto legislativo 165/2001.
E per questo dovremo attendere la sentenza del Consiglio di Stato, al quale il ministero ha annunciato immediato ricorso, per superare più o meno definitivamente il complesso busillis. Ma alla sentenza seguiranno nuovi commenti, a favore o contrari, che poco avranno a che fare con il diritto amministrativo e con il merito della questione. Ma che, attraverso una acrobatica traslazione di senso, verteranno sulla politica, la democrazia, su quanto si stava meglio quando si stava peggio, sulla riforma Franceschini, sulla riforma Madia e anche, per buona misura, sulla riforma costituzionale e sulla legge elettorale, sulla dialettica tra politica e magistratura e forse addirittura su Montesquieu.
Ma se si va appena appena un po’ in profondità ci si rende conto che sottesa a quelle motivazioni c’è spesso la più scadente rivalità tra colleghi o tra cordate accademico-burocratiche: le attuali perdenti che puntano il dito sulle provvisoriamente vincenti e ne segnalano le inadeguatezze, l’incapacità, gli scarsi risultati, il disinteresse per i principi autentici della tutela, l’uso strumentale del patrimonio culturale, i legami oscuri con il potere. Tutte prerogative che a condizioni rovesciate potrebbero essere attribuite a chi oggi le attribuisce. In una straordinaria operazione di autosabotaggio di una categoria – quella di chi vive intorno ai beni culturali e alla cultura – che, in queste condizioni, non appare certo destinata a un luminoso avvenire.