La vicenda della legge elettorale evidenzia nodi di rilevo circa il ruolo del Potere di Informare e del Potere Politico in Italia. I giornali, cioè i gruppi editoriali di appartenenza (Repubblica, Corriere, Fatto), sono ostili a ogni architettura, al di là della difettosità di qualsiasi modello. E sì che stavolta la grossa novità, dopo sessantotto anni, è che la legge sembra concordata dall’85% delle forze in campo. Si pensi, per contro, ai precedenti: la baraonda del 1953 col varo, di forza, della legge che si guadagnò (immeritatamente) l’epiteto di «legge truffa»; l’approvazione a stretta maggioranza del Mattarellum nel 1993; il mezzo golpe del Porcellum nel 2005; il drammone delle fiducie sull’Italicum nel 2016, vero motore del No alle innocenti riforme costituzionali.
Il disagio della grande stampa, fra editoriali e filippiche di Giannini in tv, talvolta deriva dal sospetto che la legge preluda all’andare a votare a settembre, con una serie di lavori che, come dice Calabresi, resterebbero a metà; talaltra si esprime in disagio per la rappresentanza a base proporzionale che, oltre a rendere incerte le possibili maggioranze, non costringe – come invece era virtù del maggioritario – a pre-dichiarare le alleanze, e lascia ai risultanti dal voto di trovare, post factum, la via del governo; spesso, ancora Padellaro ieri sera a Otto e Mezzo, si lamenta la sottrazione delle preferenze al potere degli elettori (in verità quelle plurime furono cancellate a furor di popolo in quanto potere sugli elettori).
Ne concludiamo che i grandi organi di informazione propendono al maggioritario e al voto di preferenza. Perché? Perché si tratta delle due circostanze che massimizzano il Potere di Informare rispetto al Potere Politico. Sotto il profilo del maggioritario, perché tutto si gioca sull’animo dell’opinione pubblica nel supportare o respingere i disegni di coalizione, dove i partiti sono frammenti – portatori di voti – per visioni che li coinvolgono, ma anche li travalicano. Insomma, le coalizioni si fanno dal di fuori – la retorica della “società civile”, per esempio – molto più che dal di dentro dei partiti. Riguardo al potere della preferenza è naturale che sia molto apprezzato dagli intermediari della visibilità (basti ricordare che nel suo piccolo il lumpen-sistema delle tv locali eruttato a fine anni 70 si abbarbicò subito ai candidati in lizza per le elezioni locali del 1980).
Attorno alla legge elettorale stiamo dunque assistendo al disagio del watch dog e della sua ciotola versus il tentativo dei partiti di rimettere i piedi sulla terra (alla tedesca, appunto) anziché accucciarsi – con non sottile contraddizione – in spalla al watch dog medesimo. Fin qui i fatti. Cui non si può non aggiungere il non piccolo dubbio che i partiti medesimi non abbiano in effetti spalle abbastanza larghe per farsele bastare sul piano sociale e culturale. Ma speriamo che la funzione sviluppi l’organo.