In questi tempi di populismi il pensiero corre a Hitler, tant’è che National Geographic offre da qualche mese su piattaforma Sky una serie davvero notevole di repertori sul nazismo e connessi stupori per le grandi battaglie, le incredibili fortezze, le immaginifiche coreografie. Nazismo in cinemascope. Santoro invece (con M di giovedì 22, che si concluderà la sera del 29) ha cercato di scavare nelle analogie fra l’allora e l’oggi e di usare il microscopio per cogliere i dettagli politici e biografici del collasso della democrazia in uno dei paesi guida del mondo. Volendo capire quanto conta il contesto storico, economico e sociale e quanto la persona, omino coi baffi o in felpa che sia. Cosa e in che modo potrebbe ri-accadere o sta già ri-accadendo?
Tema enorme e iper attuale, affrontato senza l’ombra dei tipici protagonisti del tradizionale talk show: il pubblico plaudente e il politico o anti-politico dibattente. Al posto loro c’erano, ben diradate negli spazi dell’ampio studio per evidenziare la individualità dei contributi, solo persone giustificate dal tema: la storica, i due giornalisti cultori della materia –tutta gente dotata, anche generazionalmente, di memoria della storia – che fronteggiavano una serie di individui giovani, anch’essi ben separati: due immigrati dal maghreb e dall’est (ma dalla lingua perfetta, per evitare il muro comunicativo della sonorità aliena), il nazista con gli stivali, la Federica sinistrista-spartachista (quella che vede in Renzi-Weimar il peggior pericolo). E qualcun altro, comunque di livello.
Il pubblico dell’auditel ha rispecchiato i due lati dello studio perché a seguire M-Hitler in misura doppia (attorno al 9%) rispetto alla media sono stati i giovani dai 20 ai 24 anni e gli anziani al di sopra dei 65, e tra questi in particolare i laureati e molti del ceto medio popolare e riflessivo. Nell’insieme, anche con abbondante ricorso ad attori e ricostruzioni, si è trattato di un docu-talk-show che tenta – come su La7, in modo per ora meno radicale, Formigli – di sfuggire alla crisi del formato tutto chiacchiera e applausi. Ma col difetto di mantenerne la misura extra large (150’) che condanna qualsiasi programma diverso dalla fiction a un pubblico raccogliticcio, con bassa (in questo caso venti minuti) permanenza d’ascolto. Quanto meno perché i frequenti pretesti di riepilogo a beneficio dei sopravvenuti fanno scattare lo zapping dei preesistenti. Nell’insieme, fra cose più o meno riuscite, si tratta di passi verso il nuovo “generalismo” post cavallo e biscione. Forse, anzi c’è da sperarlo vista l’urgenza di rompere, a colpi di tv, le bolle autoreferenziali dei social (perché è lì, in quelle affollate solitudini, che stanno ascendendo gli omini coi baffi del nostro resistibile futuro).