Nella questione del re-ingaggio di Fabio Fazio si incrociano nodi di sistema che vanno molto al di là della congruità fra compenso e persona. La sorpresa è che se ne parli. Al punto che Michele Anzaldi ― in genere opinabile, ma stavolta concreto e razionale (non è mai troppo tardi, anche per un Segretario della Vigilanza) ― ha allestito una bozza di provvedimento (la leggevamo ieri su Repubblica) che, al di là della questione “tetti” relativa ai compensi delle star, sembra mirare al sodo e cioè al rapporto fra la Rai e i fornitori di produzioni di intrattenimento. Perché l’iceberg da cui spunta “Fazio” è la pluridecennale espropriazione della sovranità aziendale, frutto non del “degrado”, ma del “destino”.
Una azienda non può infatti essere sovrana a metà: se la sua conclamata ragione d’essere è il “pluralismo”, ovvero, anziché la alterità, la contiguità più o meno lottizzata con la politica (da cui le tante testate, il morbillo delle edizioni di Tg, le sedi regionali e via “informando”) non c’è da aspettarsi che sfoderi la propria autonomia quando si occupa del resto, dalla gestione del personale alla acquisizione dei programmi di intrattenimento. Tenderà anzi ad appigliarsi ai mandati della politica in ogni ambito, pensando così di corrispondere alla volontà costante della proprietà. Da qui, per fare un grosso esempio, l’entusiasmo con cui la struttura Rai si è fatta coinvolgere per anni da compiti assistenzialistici nel campo del film e della fiction (solo nella fiction si è intravisto, e solo negli ultimi anni anche su sollecitazione dello stesso Governo, un atteggiamento più “industrialista”).
Nel settore dell’intrattenimento, e cioè per i programmi che vanno dall’infotainment allo show (Porta a Porta, Che Tempo che fa, Tale e Quale etc) la “Rai non-sovrana” è stata plasmata da due fattori: 1) dall’interno la scomparsa degli “intellettuali della produzione” che, con l’azienda accucciata nel Duopolio, sono stati progressivamente sostituiti da specialisti della programmazione (palinsestari). Questa era del resto la cultura dei tanti quadri importati da Mediaset; 2) dall’esterno i produttori, da ultimo fusi con gli agenti e le star, che hanno puntato, e chiunque lo avrebbe fatto al posto loro, a limitare i margini di volubilità dei programmatori Rai fornendogli la “roba” cui innanzitutto anelavano: la deresponsabilizzazione. Da qui la corsa dei produttori ad acquisire la titolarità di format collaudati su qualche mercato estero (se andranno bene anche da noi, evviva. In caso contrario sarà per sfortuna, e non per colpa, dell’acquirente). Ovviamente il titolare del format poteva ben esigere di fare anche la produzione, incrementando il volume del contratto, tanto più se nel pacchetto si immedesimano con entusiasmo anche le star “che fanno audience”.
Una situazione di comodo per ambo le parti, che ovviamente ha prodotto teoremi non meno di comodo: il più buffo quello secondo il quale è la star X che produce gli ascolti grazie ai quali la Rai incassa pubblicità. Come se quelle centinaia di milioni non fossero sostanzialmente predeterminati in tv dagli equilibri di palinsesto e nel mercato da quelli del Duopolio. Di una cosa si può star certi: questa Rai non cambierà a colpi di regolamenti e di fiammate dei vigilanti, ma solo se nel Paese e in Parlamento si manifesterà una maggioranza che la voglia più servizio pubblico e meno servizio di Stato. Il che avverrà quando ai più si chiarirà che il primo è indispensabile (culturalmente e produttivamente) mentre il secondo serve solo a chi lo fa e a chi se ne approfitta, come fosse un’auto blu.