Incrociando le statistiche dell’Auditel con quelle dell’Istat risulta che se l’occupazione sale l’ascolto tv scende, e la ragione è chiara: chi sta al lavoro non guarda la tv, mentre chi è senza lavoro soggiorna più a lungo in casa ed è costretto ad accontentarsi della compagnia della tv. Questo, di certo, è quanto è avvenuto dalla crisi in poi. Sul fronte dell’occupazione la più recente rottura al ribasso risale all’autunno del 2012, nel pieno delle politiche di austerità. E non per caso è allora che si gonfia il voto di protesta che, ingigantendo M5S provocherà la non vittoria del Pd alle politiche di fine 2013. E le cose continueranno ad andare di male in peggio fino ai primi del 2014.
Da lì inizia la risalita, lentissima fino a metà del 2015 e robusta in seguito, fino a sfiorare, ad aprile del 2017, il record di 23 milioni di occupati (erano 22,3 milioni prima della crisi). In più, è cresciuto nel frattempo anche il numero di chi cerca un’occupazione. Come se le famiglie, rese esperte dalla crisi e dai tanti mutamenti rispetto ai bei tempi andati, avessero deciso di superare del tutto la tradizionale italica complementarietà fra lei che lavora a casa e lui che porta la paga (complice l’impazienza di lei, il basso livello dei salari, la fragilità di qualsiasi posto, anche “fisso”). Con tutti i conseguenti traumi e spiazzamenti culturali, specie dei maschi, propri di chi si adatta, sì, alle condizioni nuove, ma schiumando rabbia per la perdita di quelle precedenti (da cui la persistenza massiccia dei comportamenti elettorali – astensione inclusa – di segno “anti”, tanto per dimostrare che non bastano migliori indicatori economici a migliorare, almeno nel breve periodo, l’umore di una comunità).
L’Auditel, invece, gioca d’anticipo e, come nel 2012 segnalò per prima la stagione dell’angoscia, ora, come fosse la colomba dell’Arca dopo il diluvio, sembra anticipare l’avvento del buonumore. Nel 2012 a gennaio, quando ancora gli occupati reggevano, già il pubblico tv si veniva gonfiando oltre ogni precedente misura, arrivando a sfiorare in prime time i 29 milioni (più 2 milioni rispetto ai massimi pre-crisi). E per due anni, mentre le cifre degli occupati puntavano all’ingiù, quelle degli spettatori stazionavano all’insù. Ma già a gennaio del 2014, quando Istat segnava ancora brutto tempo, la bolla degli spettatori coatti ha preso a sgonfiarsi, rovesciandosi nel suo contrario a partire dalla metà del 2016, quando l’audience è finita al di sotto degli anni pre-crisi, finché nel maggio 2017 è precipitata, rispetto ai 26,1 milioni del medesimo mese del 2010, al minimo storico di 24,8 milioni. Proprio mentre gli occupati, come ricordavamo, raggiungevano il loro massimo storico a 23 milioni.
E così ad oggi le statistiche dell’occupazione e quelle della tv hanno ripreso a suonare la stessa musica. Se tanto ci dà tanto, le prossime elezioni le vincerà (proporzionalmente, s’intende) chi meglio si sintonizzerà sul cambio d’umore in corso. Tempo di colombe, a costo di lasciare disoccupato qualche condor nei media. Ma potrà consolarsi e fare penitenza passando le sere in casa con i talk show. Quelli superstiti.