Cercando su internet tracce di un libro che nessuno ha ancora avuto il puntiglio di scrivere – Una storia degli abbracci in politica 1940-2017 – mi sono imbattuto nella storia di Charlie Crist, governatore della Florida dal 2007 al 2011 e membro della Camera dei rappresentanti.
Fort Meyers, sono passate poche settimane dal suo giuramento e Obama è in Florida per tenere un discorso sul piano di stimolo all’economia, avversato a Washington dai repubblicani. Crist, che allora era governatore della Florida, presenta il presidente, chiede un applauso. Obama gli si avvicina, gli sorride educatamente e lo abbraccia. Un secondo, non di più. Nella sua autobiografia Crist lo descrive come il tipo di abbraccio che significa: «Ehi, bello rivederti, grazie di essere qui». Ma è un abbraccio che gli distruggerà la carriera tra i repubblicani. Nella corsa alla nomination per un seggio al Senato contro Marco Rubio quella foto gli verrà rinfacciata come prova di intelligenza con il nemico, e lo costringerà a ritirarsi dalla corsa elettorale e quindi ad abbandonare il partito.
Il secondo abbraccio di cui mi sono ricordato è quello tra Bill Clinton e Monica Lewinski. È l’ottobre del 1996 e i due vengono immortalati durante una cena di raccolta fondi per la campagna elettorale. Clinton è di schiena, e dalla sua spalla destra spunta il volto della Lewinski. Una fotografia che finirà sulla copertina di Time quando esploderà il Sexgate, ma in questo caso il gesto affettuoso non sarà un motivo di strumentalizzazione politica. Sarà una prova a carico nel processo di impeachment.
Gli abbracci in politica sono spesso spontanei, e per questo possono macchiare indelebilmente carriere politiche o cambiare i destini della politica internazionale. Era il giugno del 1979 quando Jimmy Carter incontrò Leonid Breznev a Vienna alle battute finali dei negoziati per il Salt II, il trattato per la limitazione delle armi strategiche. Si era in piena guerra fredda e la tensione nucleare era insostenibile. Breznev salutò Carter dicendo: «Dio non ci perdonerà se falliremo». Carter si emozionò, si alzò in piedi e – ancora oggi non si sa se spontaneamente o per senso della scena – lo abbracciò, regalando la foto per la prima pagina ai giornali di tutto il mondo. L’abbraccio divenne un segno di distensione politica, e un simbolo della fiducia americana verso le buone intenzioni dell’Unione Sovietica. Sei mesi dopo l’Urss invase l’Afghanistan e quell’abbraccio divenne centrale nella campagna presidenziale di Ronald Reagan contro Carter, che gli rinfacciò il suo «hug and kiss» con il nemico.
Come un perfetto lieto fine posato non si può invece non passare per l’abbraccio degli Obama e i «four more years». La foto pubblicata dopo la vittoria alle elezioni presidenziali del 2012 è diventata in pochissime ore una rappresentazione iconica della sua presidenza, e di quanto il mondo intero avrebbe voluto essere abbracciato come la First Lady. In una storia politica italiana attraverso gli abbracci invece non potrebbe mancare l’abbraccio degli abbracci, il gesto su cui si è fantasticato più di ogni altra cosa, quello immaginato e ricostruito in ogni suo movimento: l’abbraccio (e soprattutto il bacio) tra Giulio Andreotti e Totò Riina.
Ora, dopo una lunga pausa senza effusioni politicamente rilevanti, si è aperta una nuova stagione di abbracci, ma ad aprirla non è stato il povero Giuliano Pisapia, colpevole di avere abbracciato una pericolosissima Maria Elena Boschi. Gli occhi chiusi, il sorriso disteso, le braccia che si incrociano in un abbraccio tenero e saldo, come quello che intende dare nuovamente al paese: l’abbraccio di Silvio Berlusconi a quel povero agnellino è l’unico abbraccio politicamente rilevante degli ultimi anni. Sto arrivando, e vi abbraccerò ancora, sembra dire.