Alcuni editorialisti ed alcuni dirigenti del Pd animano da qualche tempo il tormentone secondo il quale a sinistra per vincere le elezioni ci vogliono le coalizioni (e quindi una legge elettorale con il premio di coalizione). Alcune cose però non tornano. Innanzitutto il fatto che, nei vent’anni di maggioritario di coalizione che abbiamo alle spalle, il più favorito da questa logica sia sempre stato il centrodestra berlusconiano (e infatti è proprio Berlusconi il più attivo in queste ore nel chiedere un ritorno alle coalizioni). Le coalizioni innescano inoltre un meccanismo di proliferazione di partitini personali, composti perlopiù di puro ceto politico autoreferenziale, indotto dalle rendite di posizione che le forze più piccole ne traggono, avendo un potere di ricatto da esercitare. Anche per queste ragioni il sistema politico imperniato sulle coalizioni è debole, frammentato, inconcludente e instabile. Non per niente in questi venticinque anni ha accentuato crisi democratica, pulsioni presidenzialiste, deriva anti-politica e qualunquista.
Un dibattito serio non può non vedere quanto è accaduto nell’ultimo quarto di secolo. A cominciare dal fatto che la grande (si fa per dire) coalizione chiamata «L’Unione», nel 2006, arrivò al punto di sfaldarsi in campagna elettorale, prima ancora del voto, per via delle irriducibili e fantozziane divisioni interne (che portarono poi alla caduta del governo Prodi). Proprio perché sfiniti da tutto questo, nel 2007 trovammo la forza di buttare il cuore oltre l’ostacolo e di fondare il Pd. Esattamente dieci anni fa. Per dare al riformismo una forza unitaria. Le divisioni interne sono il più potente ostacolo alla credibilità, all’autorevolezza, alla reputazione di una forza politica. Noi del Pd dovremmo saperne qualcosa.
Davvero qualcuno crede che stare i prossimi sei mesi a litigare al tavolo della futura, magnifica e progressiva coalizione ci faccia del bene? No. Nessuno lo può pensare. E l’argomento che alle amministrative si vince in coalizione non contraddice affatto il punto che alle politiche invece si vince per la credibilità e la forza di parole, progettualità, leadership che colgano le attese e sappiano mobilitare la società. Per fare questo, per costruire alleanze sociali al tempo della crisi della rappresentanza, bisogna posizionarsi dalla parte giusta ed usare le parole giuste. Lavoro, diritti, inclusione, cittadinanza, protagonismo delle nuove generazioni.
Qualcuno pensa che recupereremo il voto di un solo trentenne parlando di coalizioni che vanno da Alfano a Montanari a non so chi (cercare su Wikipedia alla voce «coalizione»), senza costrutto, senza capo né coda, per pura smania politicista da congresso permanente? Al contrario, in questo modo non faremo che continuare a indebolire i partiti e la nostra stessa funzione di rappresentanza. Perché questo è il punto che si continua a far finta di non vedere: che il principale ostacolo al rinnovamento e alla costruzione di grandi partiti popolari è proprio un sistema che, incentrato sulle coalizioni, rimuove di fatto il legame inscindibile tra democrazia virtuosa e soggetti politici che funzionino, organizzati e radicati nella società (soprattutto dove è più difficile, nei quartieri dove i riflettori non li accende mai nessuno).
Nelle società in cui i partiti sono forti, il populismo non attecchisce. E allora, mai come adesso, guai a buttare al vento la conquista del premio alla lista, che porta con sé la centralità di grandi partiti. Sarebbe una sciagura. E un atto di assoluta irresponsabilità da parte del gruppo dirigente del Pd. Quel premio è il grimaldello per tornare in campo, per esprimere appieno e finalmente, a partire dal progetto che sosterrà la prossima campagna elettorale, un’idea forte di società. Per riconquistare la fiducia del nostro Paese, dovremo dimostrare di avere fiducia nelle tante energie oggi costrette ai margini e chiedere loro di fare insieme un bel pezzo di strada. Per questo serve un grande Pd, che scriva una pagina nuova. Tutto il resto, il tormentone autolesionista sulle coalizioni, è un film già visto con un finale che ci ha già profondamente delusi. Quindi, per amore del Pd e del Paese, anche no, grazie.