La fabbricazione di chiacchiere a mezzo di chiacchiere pare abbia trovato un ricchissimo filone per le sue pensose ovvietà: l’hate speech, la comunicazione farcita di odio, lo sfogatoio del peggio, basata su dati spesso falsi (i fake) ma autentica nel mostrare quel che nell’era Gutenberg restava sottotraccia e nell’era Zuckerberg erompe dalle fogne e conquista senza sforzo le piazze. Se ne legge sul Foglio di oggi (intervento di Mario Morcellini). La controfigura allo specchio dell’hater è l’anti hater, vale a dire la personalità pubblica, il politico in cerca del suo banale quotidiano, il Garante di questa o quella qualità, l’intellettuale gutenberghiano che imbraccia il “non se ne può più” e invoca regolamenti, leggi e ruoli.
Fosse solo questione di spreco affabulatorio e organizzativo non vedremmo problema. Non è infatti lo spreco, l’eccedenza del consumo rispetto ai più urgenti bisogni, a dare gusto alla vita? Senonché qui ci pare che si corra il rischio dell’errore. Perché siamo convinti che sia sbagliato affrontare l’incontinenza odiatoria dove germina, e cioè sui social, in assenza di terapie praticabili perché i social sono quello che sono e non si prestano a censure preventive. Mentre quelle successive arrivano quando la diffusione virale è già esplosa.
Più concreto parrebbe affrontare il problema dalla parte dei mass media generalisti che, lo constatiamo giornalmente, da quella esplosione si fanno invadere, la rilanciano e – come effetto sostanziale – la legittimano, perché vale ancora la forza del “l’ha detto la televisione”. Detto in altro modo, finché una odiosa puttanata rimbalza dentro le tribù auto selezionate di facebook o twitter, la media sociale del pensiero corrente non ne viene avvelenata più di quanto già non sia. Ma se un garzone/redattore da tastiera, dal suo scenografico cantuccio di un garrulo talk show, viene messo a scandire i post e i tweet come fossero notizie (perché così sei connesso al mondo di fuori, hai l’effetto diretta e riempi il tempo di trasmissione), tutta quella roba diventa realtà mostrata dalla tv.
Certo che così facendo si riesce a fare la tv con quattro soldi e proprio da qui è nata la convergenza obiettiva fra le distorsioni paranoiche proprie dei social e le distorsioni miserabilistiche del sistema televisivo. Che, come ognuno può notare, pullula di reti troppo deboli per “produrre” comunicazione e pertanto condannate a “riprodurre” quel che capita a portata di tastiera aggiungendoci un po’ di “dibattito” a contorno. Ed era così già prima dei social, che hanno solo fornito un mezzo in più all’accattone tv. Dal che si deduce che il vero alleato dell’hater da tastiera è chi si ostina – magari svicolando sulla fenomenologia dei social – a non riformare la Tv che c’è, a partire dalla struttura informativa della Rai. Ma, ahimè, un regolamento chiunque lo aggeggia, mentre una ristrutturazione industriale bisogna avere, direbbe un hater, le palle per farla.