Lettera di risposta al nostro appello
Cara Left Wing,
la precarietà è uno stato dell’anima, un destino ineluttabile che ci accomuna tutti. Io di mio avrei voluto fare il giornalista. Nel 2001, fresco di laurea, iniziai ad inviare il mio curriculum a tutte le redazioni romane. Per almeno sei mesi, indefesso, ripetevo il mio diligente invio sia per posta che per e-mail a circa 15 redazioni romane. Fin quando un’anima pia mi chiamò dal Messaggero per dirmi di farla finita. Non usò parole dure, anzi. Con fare paterno, mi spiegò che avrei potuto tranquillamente risparmiarmi questa incombenza mensile, perché tanto non serviva a nulla.
Iniziai la mia carriera giornalistica in un giornalino di quartiere. Il mio obiettivo era il tesserino da pubblicista. Non quello da professionista, perché, nel frattempo, per mantenermi lavoravo come consulente nei fondi comunitari per la formazione. Come professionista non avrei potuto avere altre attività lavorative se non quella di giornalista. Ma nelle redazioni non c’erano posti di lavoro, così la scelta mi parve ovvia. Già da allora iniziai a sentirmi escluso. A guardare con invidia e un certo odio sociale coloro che ce l’avevano fatta. L’odio sociale, l’invidia, via via più conscia, è una ineludibile malattia, dalla quale ci si può liberare semmai solo una volta più maturi. Una volta che ci si arrenda all’evidenza dei fatti.
Non ho mai ricevuto alcun compenso come giornalista. Anzi, quando collaboravo per prendere il tesserino da pubblicista, ho dovuto addirittura pagarmi le ritenute di acconto. L’editore non faceva che ripeterci che era sull’orlo di un precipizio finanziario. Era evidente che lui, come mille altri editori, faceva leva sulla mia ambizione di diventare, un giorno o l’altro, giornalista di un’importante testata. Con un bel contratto, comprensivo di benefit. Oggi penso che i genitori di un figlio o di una figlia che dovessero affermare: «Voglio fare il giornalista!», reagirebbero alla stessa maniera che se il figlio o la figlia gli avessero detto: «Ho deciso di fare l’attore!». Panico, disperazione, ansia, rassegnazione ad una vita di stenti per i loro figli. Molti di coloro che ce l’hanno fatta, hanno potuto contare sull’aiuto della propria famiglia almeno fino ai 30-35 anni. O avevano una casa di proprietà, oppure bonifici mensili da parte dei propri misericordiosi genitori.
Oggi non so se io sia mai stato un giornalista. Non ho mai firmato un contratto di assunzione, né di collaborazione per una testata giornalistica. Ciò che ho fatto, l’ho fatto da solo, con mie iniziative personali. Non ho mai vissuto la realtà di una redazione. Quella realtà della quale mi hanno raccontato alcuni giornalisti oramai in pensione. Mi piace pensare ad un mio lontano prozio che, alla soglia degli anni cinquanta, scrisse un’accorata lettera allo scrittore Giuseppe Marotta. Gli scrisse quanto amava i suoi romanzi, di come aveva scelto di scrivere ed intraprendere la carriera giornalistica leggendo le sue parole. Allegò a quell’accorata lettera un paio di suoi articoli. Marotta un bel giorno decise di rispondergli: «Caro Florido, ho letto i tuoi articoli. Credo che tu abbia stoffa. Ho già predisposto un vaglia perché tu venga a Napoli, così da poterti presentare al direttore della cronaca di Napoli del Mattino». Questa era una storia che amavo farmi raccontare da quel mio lontano parente. E mentre la raccontava, mi immaginavo io nei suoi panni, con quel vaglia in mano e una valigia leggera, piena delle mie più sfrenate speranze.
Non so se io sia, o sia mai stato un giornalista. La discriminante è vivere del proprio lavoro. Ciò che divide un dilettante da un professionista. Perché se non ti pagano o se non ti pagano abbastanza, se non hai un contratto che ti garantisce, non potrai mai fare il tuo lavoro di cronista con la necessaria serenità e con il tempo che ci vuole per fare una corretta informazione. Cosa ad oggi impossibile. Magari dovrei rassegnarmi al fatto che sono un dilettante, che si dedica a un hobby con troppa esasperante serietà.
Enrico Pazzi