Lettera di risposta al nostro appello
Cari deputati, cara Left Wing,
accetto il vostro invito a parlarne. Ma per farmi carico di raccontarvi delle storie non mie. A cui do soltanto voce perché difficilmente riuscirebbero a entrare in questo dibattito sulla condizione della nostra generazione. Per diverse ragioni. Una di queste è che è abbastanza improbabile che l’algoritmo di facebook decida di recapitare a queste persone il vostro appello. E quindi in casi come questi conviene uscire dal web e fare una telefonata, prendersi un caffè, o magari farsi una chiacchierata durante la messa in piega. Parliamo della storia di estetiste e parrucchiere.
Facciamo un tuffo nella nostra infanzia, quando nell’immaginario di noi bambine nate negli anni settanta-ottanta il mondo del lavoro era un mondo bellissimo, in cui il medico, la parrucchiera, lo scienziato o l’estetista erano tutti mestieri importanti allo stesso modo. Si andava dall’Allegro chirurgo a Barbie super chioma. Tu avevi tutto il futuro davanti e dovevi solo scegliere come riempirlo. Laura, Erica, Giusy, hanno scelto di seguire la strada dell’estetica. Erica, mia compagna di classe alle medie, era anche brava a scuola, ma già durante la ricreazione tirava fuori gli smalti e ci sistemava tutte per il sabato sera. Giusy, una zucchina vuota. La madre le disse: «Imparati un mestiere, figlia mia, che non è cosa».
Laura invece l’ho conosciuta al liceo classico, ma non veniva dalla città come noi. Lei era della provincia. Il papà una guardia giurata, la mamma casalinga. Per venire a scuola si svegliava alle cinque del mattino. Un’ora e mezzo di autobus all’andata e un pullman per tornare che non passava mai. Arrivò a fine anno stremata. Nessun professore che le abbia mai risparmiato un’interrogazione. Una bocciatura che segnò un percorso. Cambiò scuola e tornò al suo paese, Mugnano del Cardinale. L’ho ritrovata diversi anni dopo, diplomata ragioniera, e da aspirante avvocato qual era, ora fa la parrucchiera.
Per quasi tutte loro lo stesso iter: hanno fatto un corso riconosciuto dalla regione, lo hanno pagato dai 1500 ai 3000 euro. Un attestato, chi da parrucchiera, chi da estetista, e si parte con la “gavetta”. Giornate dedicate a “guardare come fa” il proprietario del negozio, a lavare la testa alla gente per otto ore di fila, tutto rigorosamente non retribuito e ringrazia anche chi ti passa sapere e conoscenza. Dopo anni sono finalmente state assunte. Laura guadagna 350 euro al mese. Lavora dalle 9 alle 18, tutti i giorni tranne la domenica. Sono 2 euro e 18 l’ora. Ha firmato un contratto da 750 euro: «Funziona così, se no chi ti prende se non firmi». È per questo che Laura in realtà è un nome inventato. Perché: «Non è che qualcuno in paese si legge il tuo articolo e io passo un guaio?». Del resto Laura, la domenica, mi fa la ceretta a casa sua per arrotondare: 13 euro, in nero. Altrimenti non c’è verso di passare qualche soldo alla famiglia con cui ancora vive. Si sente una ladra, del resto evade il fisco. Del resto, andandoci, lo evado anch’io.
Su una cosa avevamo ragione da piccole: il futuro sarebbe stato uguale per tutte, qualsiasi mestiere avessimo scelto. E infatti che tu sia estetista o ricercatrice precaria, che tu abbia la terza media o tre lauree, la morale è la stessa: non ce la si passa benissimo. Una differenza però c’è, mi disse una volta Giusy: «Io non capisco niente di politica, però non è giusto che dei call center si parla di continuo perché ci sono tanti laureati che lo fanno, e invece noi, avendo lasciato la scuola, per voi un po’ ce lo meritiamo di essere sfruttate». Per voi chi? Parliamone.