Di questi tempi dalla Rai non puoi pretendere più di una buona amministrazione corrente. L’occasione per svolte strategiche, a partire dallo svincolarsi dall’eredità corporativa del 1975 (sì, mille-novecento-settantacinque) è sfumata nell’istante stesso in cui (ottobre 2015) gli allora nuovi vertici anziché azzardare soluzione, rivoluzione e – eventuale – rivolta, hanno scelto la dilazione. Ora è tardi e, fino alla svolta di vertice che comunque seguirà alla primavera delle elezioni politiche, non ce la sentiremo di stare col ditino alzato a pretendere che si voli alto, perché sarebbe già molto se gli storici problemi, senza pretendere di risolverli, si riuscisse a contenerli. Magari evitando di ingarbugliare ulteriormente la matassa, come – leggiamo sui giornali – con questa carsica storia del bollino blu. Il suddetto bollino è quello che dovrebbe comparire in video per contrassegnare i programmi realizzati solo coi soldi del canone. Così i programmi senza bollino potrebbero annoverarsi fra quelli finanziati con ricavi commerciali (essenzialmente pubblicitari) e qui, ecco la Terra Promessa, talenti e artisti potrebbero spuntare compensi “di mercato”, cioè di più. Così la Rai non verrebbe mutilata nel suo rapporto col mondo della creatività e regole troppo austere non la incatenerebbero rispetto ai concorrenti, pronti a sottrarle con profumati contratti ogni ben di dio da video.
Anche se a leggere la stampa di oggi pare che il ministero dell’Economia, proprietario della Rai, sarebbe d’accordo con la teoria del bollino, questa non sta in piedi per una semplicissima ragione: i palinsesti, cioè gli strumenti della concorrenza pubblicitaria, sono continui e non discreti: ciò che viene prima o dopo, bollino o non bollino, spinge quel che sta in mezzo o gli tira la volata. Così come, ricorrendo a un altro esempio, nel tiro alla fune a squadre non avrebbe senso alcuno mettere un bollino sui forzuti vegani, perché al momento del tiro nessuno sarebbe in grado di distinguerne il contributo rispetto a quelli carnivori.
Non che manchino due soluzioni, entrambe sensate e armoniche, al problema (che esiste, eccome!) del rapporto fra risorse pubbliche e ricavi pubblicitari (basta guardare in giro per il mondo): la prima soluzione è che i ricavi pubblicitari siano una piccola frazione rispetto a quelli pubblici (come nella Zdf tedesca) e allora è inutile perdersi nelle distinzioni perché il mercato non viene distorto; la seconda soluzione è che i palinsesti interamente finanziati dal canone convivano nello stesso sistema con quelli finanziati dalla pubblicità, senza situazioni miste (come da decenni nel servizio pubblico inglese). L’alternativa insensata alle due soluzioni sensate è la situazione presente, in cui la Rai ha troppa pubblicità per non distorcere il mercato (sia pure come socio passivo del duopolio), o quella del bollino, che a quel che c’è da quaranta anni aggiunge un tocco di colorata ipocrisia.