Lettera di risposta al nostro appello
«Fujtevenne!» fu una delle celebri esclamazioni del grande Eduardo. Un invito accorato fatto quarant’anni fa ad alcuni giovani attori che chiedevano al maestro lumi sul loro futuro. Eduardo era sfiduciato ed amareggiato perché il suo progetto di dotare la capitale del Mezzogiorno d’Italia di un Teatro Stabile era naufragato miseramente. Il progetto fu realizzato solo decenni dopo, ma quel grido di rabbia misto a delusione ancora oggi riecheggia come emblema di generazioni che, manco a dirlo, dalla metà degli anni novanta hanno ripreso a fare quello che è una delle caratteristiche distintive dell’Italia: migrare. Solo per stare alla sua recente storia, dal 1876 ad oggi le italiane e gli italiani che sono partiti per l’estero – tralasciando le decine di milioni di spostamenti interni alla penisola – superano abbondantemente i 30 milioni. Volendo lanciare una provocazione e forzando la mano, francamente nemmeno più di tanto, la migrazione è segno indelebile, nel bene e nel male, della civiltà italiana: «Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigratori». Può sembrare una forzatura, ma le facciate del Palazzo delle civiltà italiana ancora oggi ce lo ricordano. Poi potremmo discutere se abbia senso o meno parlare di civiltà italiana, ma questa è un’altra storia per la quale servirebbe un’altra sede e tante interminabili ore di discussione.
Tornando al tema, l’appello a non tornare ormai si ripete ad ogni statistica, ad ogni rilevazione di un fenomeno che sta letteralmente svuotando il paese della sua gioventù. D’altronde, se nell’immediato secondo dopoguerra il tasso d’invecchiamento del paese era simile a quello che oggi registrano Albania o Tunisia, l’Italia ormai si è avvicinata se non ha addirittura superato il tasso d’invecchiamento della Germania o del Giappone. E ancora, in parallelo, negli ultimi anni si è sviluppata un’altra narrazione/questione: partire o restare? Serve più coraggio per lasciarsi alle spalle il proprio vissuto, le proprie relazioni, la propria comunità – che sia amata o odiata – o per restare, consapevoli di perdere le tante occasioni che il mondo ci riserva? Serve più coraggio per immergersi in contesti nuovi e diversi o illudersi, a volte, di combattere, nell’estremo tentativo di modificare il preesistente a casa propria? Nei fatti, non esiste una risposta univoca. Da millenni – perché la mobilità è una caratteristica imprescindibilmente legata alla specie umana – non si è ancora riusciti a trovarne una e, con ogni probabilità, non si troverà mai una risposta certa. Quello però che si riesce a percepire sono gli stati d’animo e le emozionalità di generazioni che si interrogano sul loro divenire e sul fatto se abbia ancora senso o meno sperare di rientrare un giorno.
Chi vi scrive, cari parlamentari e cara Left Wing, dopo essersi laureato e aver conseguito il dottorato nella città di Eduardo, dal 2011 lavora come storico delle migrazioni presso l’Università di Ginevra, dove ormai, nell’ultimo triennio, pare che l’italiano sia diventato lingua veicolare. Non solo al Cern, ma in tutti i dipartimenti, dalle scienze dure a quelle umanistiche, i cognomi italiani si sono quintuplicati. Certo, la ricerca di per sé è internazionalizzazione, mobilità, acquisizione di know-how, conoscenza del mondo e dell’altro. Ma la ricerca serve anche ad abbattere gli stereotipi, le finte verità. Certo, lavorare in uno degli atenei più prestigiosi al mondo consente di raggiungere grosse soddisfazioni, sia dal punto di vista scientifico sia economico, tuttavia manca e mancherà sempre qualcosa. E quel qualcosa è insito nella domanda di cui sopra: è più facile partire o restare? O, detto diversamente: è più facile restare o ritornare?
Fare esperienza all’estero, anche per periodi medio-lunghi, è di vitale importanza nella ricerca e probabilmente in tutti gli ambiti. Tuttavia, ciò che manca in Italia, oltre all’investimento serio e cospicuo di risorse nel mondo dell’Università e della ricerca, è la definizione di seri e validi programmi di rientro o di modalità concrete affinché questo possa accadere. Non servono una tantum o incremento di punti percentuali del Pil, bensì interventi circostanziati e precisi. In altre parole, mancano risorse vere, concrete, che non siano fondi europei mascherati da programmi nazionali che sono destinati, talvolta, alla ricerca. Ripeto, il problema non è fare ricerca all’estero, soprattutto nell’ambito delle cosiddette scienze dure – anche se in questo caso si perdono migliaia di brevetti e, quindi, risorse economiche e prestigio internazionale – ma non poterla fare in Italia. Per quanto riguarda invece le scienze sociali e/o umane, qui probabilmente il rischio nel quale incorriamo è quello di cancellare le analisi – delle quali abbiamo un infinito bisogno – del territorio, dei contesti umani, delle comunità sulle quali voi parlamentari vi state interrogando. La dico diversamente, consapevole di suscitare qualche perplessità. Perché, nonostante le condizioni quasi proibitive per fare ricerca in Italia, riusciamo ancora marginalmente ad attrarre persone? Perché, nonostante tutto, esse continuano a venire nel nostro paese? Per l’alta tecnologia, per la chimica o la fisica? Continuano a venire ed essere interessati a noi per il nostro patrimonio storico-artistico, per la nostra biodiversità, per l’unicità e la diversità dei nostri luoghi. Privare la ricerca di questi territori, e allo stesso tempo, privare questi territori della ricerca sul campo, rischia di cancellare la produzione scientifica di questi soggetti e di relegarli nelle mere analisi statistiche del malessere, il più delle volte prodotte da terzi e senza profondità e specificità d’analisi.
In definitiva, sperando di aver sollecitato le vostre sensibilità, per chi fa questo mestiere all’estero, dove guadagna anche cinque-sei volte di più rispetto al collega rimasto in Italia, non sono solo le condizioni economiche a frenare quel ritorno, che molti analisti e commentatori sconsigliano, bensì l’insopportabile non riconoscimento dell’oggi. Probabilmente occorrerebbe fare come in altri paesi, nei quali nell’ambito della ricerca le risorse maggiori vengono destinate ai giovani ricercatori. In altre parole, occorrerebbe invertire il trend retributivo. Non puoi fare ricerca di qualità se negli anni della tua massima produttività e intuitività – sia chiaro, anche questo è un paradosso e contemporaneamente una provocazione – vieni sottopagato o pagato male e l’unico obiettivo diventa il raggiungimento di una certa età di servizio, non di produzione, per guadagnare di più, quando probabilmente non hai più nulla da dare e da dire. Non dico di riuscirci, ma quantomeno provate a ridare voce e ambizione a chi, e vi garantisco che sono migliaia, sarebbe ben disposto a rinunce economiche pur di poter rimettere al centro la propria dimensione e funzione sociale. Sì, funzione sociale della ricerca, che in questo paese, da troppo tempo, viene calpestata.
Toni Ricciardi