Nei film di Alfred Hitchcock, il MacGuffin era un pretesto narrativo, un oggetto apparentemente al centro della scena che fungeva da motore della suspense ma che nello svolgersi della trama si rivelava secondario, se non addirittura superfluo. Insomma, qualcosa che ti mettevi a fissare convinto fosse la cosa importante, e invece era una deviazione. I guanti sulla scena del delitto in Ricatto, il materiale radioattivo nelle bottiglie di vino in Notorius, il segreto sul microfilm di Intrigo internazionale o la ragione per cui gli uccelli si schiantano contro le finestre di Bodega Bay.
Il caso Consip è diventato un gigantesco MacGuffin, un racconto di cui è ormai impossibile distinguere il motore narrativo: le indagini sulla presunta corruzione negli appalti della centrale acquisti della pubblica amministrazione, i traffici di influenze per favorire imprenditori, le presunte fughe di notizie ai massimi livelli istituzionali o la serie di indagini che si sono sviluppare sull’inchiesta stessa. Perché da un certo punto in poi le indagini hanno cominciato a frattalizzarsi, tra trasferimenti di competenza, fughe di notizie e pubblicazione integrale di informative di polizia giudiziaria coperte dal segreto; e poi investigatori trasferiti, la revoca delle indagini al Nucleo Operativo Ecologico, errori clamorosi, presunte falsificazioni e su tutto l’ombra lunga del depistaggio. Il caso Consip oggi è una gigantesca meta-indagine, praticamente impossibile da raccontare, e che finisce sui giornali sempre meno per i reati che dovrebbe accertare, e sempre più spesso per queste indagini sulle indagini, per gli intrecci caotici tra istituzioni dello Stato e movimenti oscuri. Non si dovrebbe parlare d’altro, in realtà.
Nella sua rappresentazione giornalistica il caso Consip stava diventando un paradigma investigativo, come Mafia Capitale, come la Trattativa. Ma poi il racconto è imploso e l’impalcatura su cui l’indagine si muoveva ha cominciato a cedere, rivelando un mondo di mezzo – cit. –, un vero e proprio sottosopra alla Stranger Things, una dimensione investigativa parallela intorbidita, misteriosa e oscura. Lo spostamento di una parte dell’inchiesta da Napoli a Roma, le fughe di notizie e la revoca delle indagini al Noe, che fino a quel momento aveva collaborato con la Procura di Napoli; la scoperta dell’incredibile errore di attribuzione di un’intercettazione ambientale, attorno al cui contenuto ruotava una parte della tesi accusatoria – quella più politica – un errore così grave che i magistrati decidono di aprire un fascicolo per falso e un’indagine per depistaggio a carico di due capitani dei carabinieri. E poi il pubblico ministero titolare originario dell’inchiesta che oggi è indagato dalla Procura di Roma con la nota giornalista televisiva per la fuga di notizie sull’indagine di cui è titolare.
Ma come una grande storia italiana degli anni settanta, ecco entrare in scena il presunto depistaggio da parte dei servizi segreti. Come negare la presenza di una barba finta? Sono passati quarant’anni e a via Fani ancora compaiono e scompaiono automobili, agenti dei servizi, terroristi, e così anche nell’inchiesta Consip non potevano mancare i servizi, in una inception investigativa in cui tutti controllano tutti. I servizi segreti aprono scenari oscuri, gettano quelle ombre geometriche del potere politico sulle indagini e del controllo della politica sulla magistratura. Peccato che l’uomo dei servizi che controllava gli investigatori non esisteva, e che è bastato controllare una targa per rivelare il meta-depistaggio. Quello che emerge è la fotografia di un’indagine percorsa da conflitti tra corpi dello Stato che si manifestano su piani diversi, ufficiali e occulti, in uno scontro tra poteri che non emerge ancora nitidamente, ma che non ha precedenti negli ultimi anni.
A questo punto all’indagine Consip manca veramente poco – l’omicidio di una nobildonna durante un festino, un gruppo di forestali che occupa un ministero – per sublimare in una delle grandi inchieste italiane. Quello che c’è, però, basta per aprire interrogativi enormi sulle forze che si sono mosse in quel sottosopra investigativo e sugli obiettivi che perseguivano, in indagini ad altissimo tasso di strumentalizzazione politica che finiscono sui giornali, alimentando e condizionando il dibattito pubblico e la routine di una democrazia. Senza dimenticare che è un’indagine penale in cui diritti, garanzie, continenza e rispetto della legge valgono per tutti, per gli imputati, ma anche per chi fa le indagini e per chi le racconta. Il problema è che si guarda al caso Consip come a una serie di sfortunati eventi che si sarebbero affollati nella stessa indagine. Capitani pasticcioni, errori di persona, lasciando comunque intendere che il disegno corruttivo scoperto è centrale, mentre anche l’ultimo degli sprovveduti capirebbe che in quel sottosopra si sono mossi conflitti di potere a ogni livello istituzionale, in un disegno torbido, come in ogni depistaggio che si rispetti, e con una torsione pericolosa del meccanismo democratico.
Il MacGuffin del caso Consip non deve sviare l’attenzione da ciò che ancora una volta rivela: un sistema consolidato di relazioni distorte tra stampa, procure, opinione pubblica e dibattito politico. E non servono accertamenti di reato quando le violazioni di diritti e garanzie sono ripetute e il dibattito pubblico è stato drogato da notizie che si sono poi rivelate delle bufale. La remuneratività politica delle vicende giudiziarie è l’unica cosa che conta. La Procura di Roma indagherà sulle responsabilità personali, gli errori, le omissioni, i depistaggi, i falsi e le fughe di notizie. Ma non serve l’accertamento dei reati, bastano i fatti storici messi in fila uno dietro l’altro per dare l’idea di cosa possa nascondersi in un’indagine, e di come sia un interesse primario della magistratura, della stampa e della politica stessa dissolvere una volta per tutte questo coacervo tossico.