Sebbene paludato da forme apparentemente legali, quello che i secessionisti catalani stanno cercando di esercitare è un potere rivoluzionario, cioè il potere di costituire un nuovo ordinamento costituzionale, rompendo con il precedente (potere costituente lo definiscono i giuristi). Solo il raggiungimento dell’obiettivo trasformerebbe in legale ciò che al momento è illegale. Per questo contro di esso a nulla vale opporre argomenti giuridici, specie in tempi come questi di videocrazia, anzi di socialcrazia, dove il consenso creato con la forza delle immagini prevale sulla forza del diritto.
Per questo era illusorio pensare di poter contrastare il referendum del primo ottobre ricordando le gravissime irregolarità, formali e sostanziali, commesse. Inutile ricordare che nelle ultime elezioni (settembre 2015) la coalizione dei partiti indipendentisti aveva ottenuto meno della metà dei seggi (62 dei 135 seggi); che le due leggi – sul referendum e sulla transizione istituzionale – erano state approvate attraverso una procedura parlamentare rapidissima, che non aveva consentito alle minoranze di partecipare, e perciò irregolare (in Italia ci si indigna per molto meno); che la maggioranza dei soli votanti era stata raggiunta grazie all’appoggio di una forza – la Candidatura d’Unitat Popular – per cui l’indipendenza è solo funzionale alla realizzazione di uno Stato socialista; che il referendum si è svolto in modo palesemente irregolare, senza una vera e propria campagna elettorale in cui gli oppositori potessero esprimere le ragioni del loro dissenso, con persone che hanno votato più volte in posti diversi, senza che il voto fosse segreto e quindi in un clima di intimidazione per i sostenitori del no; che, ciò nonostante, al referendum ha votato meno della metà degli aventi diritto. Inutile, infine, ricordare che, nelle condizioni date, il diritto all’autodeterminazione non esiste. Tutto inutile.
È bastato vedere la polizia spagnola fare irruzione nei seggi per proiettare nell’immaginario collettivo i catalani indipendentisti dalla parte dei buoni, in nome del diritto all’autodeterminazione e della democrazia, e gli spagnoli dalla parte dei repressori cattivi. Ed era inutile ricordare ai cronisti che commossi narravano di tale fulgido esempio di democrazia che la democrazia si esercita nel rispetto delle regole e che quella dello Stato non è mai violenza ma uso della forza, sproporzionata, certo (e per questo censurabile ed evitabile), ma pur sempre legittima. Come detto, quando si esercita il potere costituente, ciò che conta alla fine è il consenso e il controllo del territorio. Per questo, i secessionisti catalani hanno fatto di tutto per far credere all’opinione pubblica (specialmente internazionale) di avere entrambi, tramite soprattutto i social network (così da avvalorare il carattere popolare e anti-establishment della rivolta), magari photoshoppando qualche foto sanguinolenta per amplificare il ruolo di vittime. Ma, come diceva Lincoln, si può ingannare tutti per qualche tempo, o qualcuno per sempre, ma non tutti per sempre.
Così è bastato (finalmente!) far scendere in piazza a Madrid e a Barcellona gli oppositori alla secessione per dimostrare che quella che ci è stata romanticamente raccontata dai cronisti è solo una parte della storia; che esiste una minoranza (?) silenziosa che, dimostrando un senso di ragionevolezza e di responsabilità forse superiore alla classe politica, non è contro la Catalogna e la sua autonomia ma vuole che le due parti s’incontrino e dialoghino (Hablamos! Parlem!) per trovare una soluzione ragionevole di reciproca soddisfazione. Oppure è bastata la decisione appena accennata delle due più grandi banche catalane di spostare provvisoriamente la sede sociale per far capire quali conseguenze economiche potrebbe avere la secessione catalana.
Dinanzi a due contendenti ormai prigionieri del loro ruolo, in cui nessuno vuole cedere, alla guida di due treni lanciati l’uno contro l’altro, da un lato, e dall’altro a una società catalana spaccata, occorre dunque recuperare l’arte della mediazione politica. Tale compito non può essere svolto dall’Unione europea, che non ha né la competenza, né la legittimità, tantomeno da autorità religiose. Piuttosto l’unico soggetto istituzionale che può ricucire questa situazione sembra essere il Sovrano, esercitando i suoi poteri (anche informali) di garanzia e di moderazione in modo meno unilaterale di quanto sia sembrato nel suo discorso. Il problema è dunque politico, ma la politica può trovare nel diritto la strada per la sua risoluzione. L’uscita di sicurezza da questa situazione così ingarbugliata sta, infatti, proprio nel recupero di quelle procedure istituzionali e parlamentari finora tanto disprezzate ma che invece si rivelano quello che sono e saranno sempre: garanzia per tutti.