Cara Left Wing,
spero che tu abbia letto la Teoria della classe disagiata del nostro comune amico Raffaele Alberto Ventura. È uno dei non frequenti casi nei quali l’hype creatosi nella bolla di gente come noi si rivela piuttosto all’altezza del contenuto che lo ha generato, e insomma sono una dozzina di euro ben spesi (spero che entrambi apprezzerete la mia fedeltà di scuderia). Ventura ieri sera si è presentato di fronte a una sala di aspiranti architetti, qui a Milano.
Gente come lui, acculturata e iperqualificata; per essere più precisi, gente quasi come lui (la prima, visibile e sostanziale differenza è che i componenti del pubblico non sono ancora stati in grado di scrivere e farsi pubblicare quello che con vezzo da romantico francese lui ha definito il suo romanzo di formazione) e passando dalla piramide di Maslow alle gif animate trovate in rete, alla trilogia di Goldoni, gli ha spiegato come e perché sono disagiati, o se vogliamo insoddisfatti, impauriti e destinati a una lunga vita di salti mortali senza rete, incertezze e mutui non restituibili. Mutui destinati a pagare lauree e master, abbonamenti a Netflix, forniture industriali di ebook e Mac Air, insomma quei cosiddetti beni posizionali che servono a difendere il posto in società così faticosamente conquistato dai genitori: l’equivalente dello sfarzoso abito da sera di una ragazza del Settecento in cerca del giusto partito dal quale farsi sposare.
Gli ha spiegato anche che c’è poco da fare, che i bisogni materiali si possono soddisfare ma quelli aspirazionali no: l’asticella verrà sempre spostata più avanti, richiedendo un investimento di risorse finanziarie, mentali, di tempo sempre maggiore, per conseguire un fallimento sempre più spettacolare. Il problema, ha in fondo detto Ventura, non è il mondo intorno a voi, né il destino cinico e baro: il problema siete voi stessi, il problema sta nella vostra testa e in ciò che vi ci hanno cacciato dentro.
Ascoltando il racconto leggero e sorridente di questa tragedia epocale non ho potuto fare a meno di pensare per tutto il tempo a una figura tanto reale quanto mitologica, che è quella di mia nonna. Una qualsiasi delle due che ho avuto la fortuna di conoscere e frequentare almeno un mese all’anno per i primi diciassette anni della mia vita: erano due contadine sarde, analfabete, impassibili e intelligenti come vuole il detto delle scarpe grosse sotto al cervello fino. Entrambe avrebbero ascoltato Ventura e, posto che fossero riuscite a districarsi tra le citazioni di Cechov, Violetta e Fred Hirsch, gli avrebbero detto – avrebbero detto a tutti i presenti in sala: ragazzi, bisogna essere capaci di accontentarsi, cioè di essere contenti di ciò che si ha (e si è). Poi si sarebbero alzate, si sarebbero serrate il fazzoletto nero sotto il mento e sarebbero tornate alle loro faccende. Gli altri, quelli rimasti sulle poltrone di un’aula del Politecnico, si sarebbero guardati in faccia e ognuno avrebbe pensato quello che Mauro Biani ha espresso in una felice vignetta di qualche settimana fa a proposito di ius soli: «Se tu sei come me, io poi chi sono?».