È sempre stato difficile per i filosofi arrischiarsi a prendere parola sul futuro. Quando poi si entra in un periodo di interregno, per dirla con Gramsci, in cui possono accadere i fenomeni morbosi più svariati, allora difficoltà si assomma a difficoltà. L’interregno, in cui il vecchio muore e il nuovo ancora non nasce, era determinato per Gramsci dalla rottura fra classi dirigenti, ideologie dominanti e masse popolari. «La morte delle vecchie ideologie – aggiungeva il pensatore sardo – si verifica come scetticismo verso tutte le teorie e le formule generali e applicazione al puro fatto economico (guadagno, ecc.) e alla politica non solo realista di fatto (come è sempre) ma cinica nella sua manifestazione immediata».
Non pochi intellettuali contemporanei hanno richiamato queste celebri pagine dei Quaderni, per istituire un confronto con la nostra epoca: non viviamo infatti un’epoca di crisi? Non è evidente che dopo circa tre decenni di consenso largo e diffuso intorno alle ricette del neoliberismo si odono tutt’altri accenti, anzitutto nei paesi che ne sono stati i santuari: nell’America di Trump e nel Regno Unito della Brexit? Non è altrettanto evidente la crisi d’autorità delle classi dirigenti, sempre meno egemoniche, sempre più unicamente dominanti? A voler spingere più in là l’analogia, si potrebbe aggiungere, con qualche preoccupazione, che il nazionalismo economico e il populismo dei nostri giorni permettono di evocare con qualche verosimiglianza gli anni trenta del secolo: non c’è oggi una stanchezza sempre più accentuata delle democrazie occidentali, che si manifesta anzitutto nella disaffezione dell’elettorato, e che spinge molti a guardare con ammirazione a modelli venati di autoritarismo come la Russia di Putin (ma anche a paesi più lontani come la Cina o l’India di Modi)?
Il compromesso fra democrazia e capitalismo, che ha segnato in particolare la crescita europea nel secondo dopoguerra, era, appunto, un compromesso. Cioè non un accordo spontaneo, iscritto nella natura delle cose, ma una compagine economico-sociale realizzata con (e tenuta insieme da) le arti della politica, per ciò stesso sempre esposta alla domanda se sia possibile reggere un sistema politico antieconomico. C’è il rischio che quella domanda faccia nuova strada. Anche grazie a quello scetticismo diffuso di cui parla la nota di Gramsci e su cui mi interessa tornare. I filosofi sono oggi abituati a considerarlo in sede di teoria della conoscenza, come un fatto epistemico, che riguarda soltanto il sapere, le sue condizioni e le sue possibilità. La pagina di Gramsci collega invece questa attitudine del pensiero e della vita al rapporto dell’uomo col mondo.
Non si è scettici, in altre parole, perché si è maturata una certa sfiducia nei confronti di questo o di quest’altro, ma è maturata quella sfiducia a seguito di un mutamento d’epoca. In ballo non c’è soltanto una collana di pensieri individuali, ma una figura di mondo. Una coscienza scettica non spunta solo per lo spremersi delle sue individualissime meningi, ma anche perché qualcosa, dal lato del mondo, è venuto a mancare, e la coscienza ha potuto o voluto allontanarsene, per porsi liberamente per sé. «Liberamente per sé» è locuzione hegeliana, la cui traduzione più prosaica potrebbe essere: per i fatti suoi.
Si possono leggere a tal riguardo proprio le pagine, poche, che Hegel dedica allo scetticismo nella Fenomenologia dello Spirito, per cogliere il nesso fra il crollo delle credenze in cui consiste lo scetticismo e la contraddittoria esperienza della libertà che esso procura: da un lato una libertà universale, uguale solo a se stessa; dall’altro un «accidentale arruffio, l’imbroglio di un disordine che sempre si riproduce». Da un lato, infatti, nulla vale per questa coscienza scettica, capace di illimitata denigrazione di qualunque sforzo serio di cambiare il mondo; dall’altro, essa si pone a se stessa e per se stessa, nonostante ogni scetticismo, come un valore assoluto, come un’incrollabile certezza. La contraddizione si produce perché l’indipendenza dalla natura guadagnata dall’uomo col lavoro non trova ancora un mondo in cui si riconosca. Perciò lo scetticismo tramonterà inesorabilmente nei languori e nei dolori di una coscienza infelice, prima di volgere finalmente il suo comportamento negativo verso il mondo in un comportamento positivo.
Ho tentato una velocissima rilettura: ma a cosa può servire? Anzitutto (lo dico ovviamente con un filo di ironia) a correggere Hegel medesimo; in secondo luogo, ad aprirsi il cammino per offrire qualche riflessione sul futuro, senza di cui nessun rivolgimento in positivo sarà mai possibile. A correggere Hegel. Tutti ricordano la nottola di Minerva che si leva sul far del crepuscolo, cioè la convinzione che compito della filosofia sia capire il proprio tempo, e che a dire una parola su come deve essere il mondo «si arriva sempre troppo tardi». Ebbene, anche questa è a tutti gli effetti una professione di scetticismo circa le possibilità della filosofia, e dunque una dichiarazione sullo stato del sapere filosofico nel suo rapporto col mondo, piuttosto che una semplice e neutra presa d’atto di quel che è. Nella concezione hegeliana, peraltro, in tanto la filosofia comprende il passato in quanto esso è immanente al presente. Ma perché, se si ha a disposizione una idea più larga del tempo presente, essere scettici circa l’immanenza del futuro al presente?
Inamovibile sulla sua cattedra di Berlino, Hegel aveva in realtà le sue buone (e, certo, contingenti) ragioni; noi dovremmo però trovarne di altre, e migliori, per dire una parola sul futuro, prima di cedere a un rassegnato scetticismo. Ora, io vorrei provare non già a dire questa parola, ma a spiegare (molto sommariamente) cosa questo comporta, o forse cosa, in questa parola sul futuro, è in gioco. Non v’è chi non veda, infatti, che l’afasia sul futuro non colpisce nella stessa maniera tutti i saperi. La filosofia tace, e sembra non poter fare altro, ma le scienze sfornano a getto continuo proiezioni, stime e scenari i più diversi, con i quali invitano la politica ad agire per sventare minacce incombenti: climatologiche o sanitarie, finanziarie o demografiche. E, si badi, non si tratta solo del contributo che offrono le cosiddette scienze dure, cioè le scienze naturali, ma sempre più delle scienze sociali ed economiche. Le quali, se mai, si induriscono, cioè tendono a naturalizzare l’uomo, proprio per estendere il più possibile la propria capacità di prevedere e intervenire sul corso del mondo. In realtà, i due verbi devono ormai scambiarsi di posto: si prevede perché si interviene, piuttosto che intervenire sulla base di una previsione. È cioè enormemente aumentata la capacità di soddisfare la richiesta di diminuire il margine di incertezza delle nostre vite non già accrescendo il sapere, ma accrescendo la capacità di intervento sulla realtà, al fine di espellere l’incertezza.
Discorsi, discipline, pratiche sociali e politiche pubbliche anche molto distanti tra loro hanno questo tratto in comune: dalle politiche securitarie alla medicina preventiva, dall’internet of things alla gestione del rischio in materia di ambiente, dal dilagare della demoscopia all’ingegnerizzazione della finanza con gli stress test, abbiamo sempre meno parole sul futuro, e sempre più strategie per sterilizzarne i pericoli connessi alla sua impredicibilità. Cosa questo c’entri con il Partito democratico è presto detto, non appena si traducano queste considerazioni nei termini forse più familiari dell’antropologia moderna. Quel che infatti si vede subito, è che le nostre società hanno scelto non più di coltivare la speranza ma di gestire la paura. Non abbiamo più filosofie della storia (le famose “grandi narrazioni” che nella condizione postmoderna hanno perso ogni credibilità), ma siamo incessantemente sottoposti a forme di profilassi circa quel che potrebbe accadere e che vorremmo non accadesse mai. Come spiegava Ulrich Beck nel saggio La società del rischio, abbiamo un gran numero di istruzioni su ciò che si deve fare in via precauzionale, ma nessuna dottrina su ciò che si può fare in via propositiva. Il futuro non è più oggetto di proposta.
Eppure, non saprei dire in altro modo ciò che al Partito democratico tocca di fare, nei prossimi anni, che non sia questo: fare il futuro oggetto di proposta. Fare della politica il luogo in cui torna ad avere un senso ragionare sul futuro, cioè su una cosa diversa da quella che c’è ora, in cui è possibile gettare fin d’ora lo sguardo e provare a tracciare qualche via. Fare, insomma, la guerra allo scetticismo diffuso e al cinismo imperante (lascio ai sociologi il compito di una ricognizione analitica dei relativi fenomeni). Oserei persino dire che fare il futuro oggetto di proposta significa farlo essere, nel modo in cui è il futuro: cioè come avvenire, come cosa che viene. Ed è questo, in realtà, il vero punctum dolens dello scetticismo. Che purtroppo concerne molto meno quello che non c’è – a proposito del quale non ci vuol nulla a sbagliar previsioni – e molto più quello che c’è ora, e in cui soltanto può essere fin d’ora in serbo quel che sarà. Lo scetticismo, insomma, riguarda noialtri, è una modalità del nostro attuale modo di stare al mondo. Fare il futuro oggetto di proposta e fare il futuro, alla fine, son dunque quasi la stessa cosa. (Circa il quasi: non vorrei che mi si accusasse di sfrenato idealismo).
Come che sia riguardo all’ampiezza di quel fare, di sicuro lo scetticismo, la rassegnazione non sono compatibili con la natura di un partito, il Pd, che vuol collocarsi pienamente entro la tradizione democratica e socialista europea, e che mantiene ferma una qualche idea di progresso. A un partito del genere certe questioni di contenuto economico-sociale non possono non riuscire tuttora impellenti: la reazione di buoni posti di lavoro, la riduzione delle diseguaglianze, i tratti universalistici dei sistemi di welfare, le pari opportunità. Così come è indispensabile che il Pd dia un giudizio non equivoco su alcune grandi sfide del nostro tempo: dal fenomeno migratorio, che non può essere visto solo in chiave di emergenza e di pericolo, all’Europa, che deve rappresentare il livello più adeguato di governo di fenomeni globali.
Su queste questioni, tuttavia, non prenderò qui posizione in maniera argomentata, se non per dire che considero pericoloso assecondare la china sovranista (tinta di una sovranità gelosa ed esclusiva) e considerare un lusso che non possiamo permetterci l’internazionalismo e una società aperta. Piuttosto, vorrei prendere l’atteggiamento assunto da Richard Rorty quando, discutendo della sinistra culturale americana, dei suoi dogmatismi e della sua indisponibilità a ragionare in termini riformisti, sceglieva due libri come campioni dei due diversi atteggiamenti e chiosava: «Chi ha letto Geoghegan, dispone di opinioni su alcune cose che è necessario fare. Chi ha letto Jameson, dispone di opinioni praticamente su tutto, tranne che sulle cose che bisogna fare». La preoccupazione principale di Rorty (che scriveva ormai quasi vent’anni fa, e che tuttavia era già in grado di vedere, tra gli effetti della globalizzazione, il pericoloso «dirigersi delle vecchie democrazie industrializzate verso un periodo affine alla repubblica di Weimar») nasceva dalla constatazione, diffusa ora come allora, che non vi fosse più una sinistra degna di questo nome. Solo che, al contempo, continuava ad esservi, ora come allora, una intellighenzia di sinistra, in molti casi non priva di effervescenza teorica e presenza mediatica. Conclusione: «Dal momento che nessuno nega l’esistenza di quella che ho definito “Sinistra culturale” ciò equivale a riconoscere che quella Sinistra è incapace di dare battaglia nella politica nazionale».
Fare una proposta sul futuro, fare del futuro la proposta equivale non già a sognare ad occhi aperti, ma proprio al contrario a riconoscere che il «disimpegno dalla pratica», perseguendo «futili tentativi di filosofare secondo le proprie idiosincrasie sull’attualità politica», non può essere la divisa intellettuale della sinistra. Se, nel rapporto con il mondo della cultura, dell’intellettualità, della ricerca il Pd ha un compito, non può che essere quello di provare a smuovere queste cattive abitudini: le contraddizioni di una coscienza scettica, che tutto disprezza nel mondo reale per rimanere sempre uguale a se stessa. Cioè, in fin dei conti, per starsene senza troppa fatica per i fatti propri.