Non cerchiamo rifugio tra le macerie

Parlare del Partito democratico proiettando la sua immagine nei prossimi dieci anni non è compito facile soprattutto se il discorso su di esso deve essere inserito nel difficile tema del destino politico dell’Italia in Europa. E peraltro senza connetterlo a questo tema cruciale quale senso avrebbe provare a ritagliare una fisionomia possibile del Pd, o di qualunque altro partito? Un partito non è solo “programma”, anzi è soprattutto un’entità storico-politica che deve fare i conti con il corso dei tempi e con una capacità di previsione. È tanto più necessario assumere il tema nella dimensione accennata, quanto più è chiaro che se si continua a ragionare nei confini dei recinti nazionali, si perde il punto di prospettiva da cui pensare se stessi e il mondo, e se stessi nel mondo. Per noi il mondo a cui guardare è anzitutto l’Europa, senza peraltro dimenticare il resto. Ciò detto, diamo un veloce sguardo al passato.

Ho sempre pensato che la nascita del Pd nell’anno di grazia 2007 somigliasse a quella di un parto mal riuscito. Non proprio un neonato deforme, ma certo non un esserino in piena salute. Mi pareva che si fossero messi insieme i resti di due culture esaurite, una, quella derivata dal Pci, sconfitta dalla grande storia, l’altra, quella democristiana, esaurita per essere almeno in parte ritagliata su un nemico che non esisteva più, nonché per naturale consunzione, dopo un cinquantennio circa di quasi ininterrotto governo: ambedue rifiutavano di fare i conti con se stessi, e ne veniva fuori un’entità certo anche capace di governo – come di fatto avvenne talvolta anche lodevolmente nel ventennio successivo, a corrente alternata con l’Italia di Berlusconi – ma inadatta a stabilire per davvero una nuova entità politicoculturale: insomma, si capisce che non sono un nostalgico dell’Ulivo, e ciò va detto subito dal momento che di Ulivo si ricomincia a parlare.

Quasi nessuno dei personaggi che avevano tenuto banco nei decenni precedenti aveva voluto abbandonare il campo e magari guidare un cambio di generazione che è un elemento decisivo del rinnovamento di una politica, altrimenti lo sguardo è sempre rivolto all’indietro. L’immagine data fu più quella di un trasloco con masserizie da una casa all’altra che quella di una nuova nascita. Da tempo la mia tesi è che il 1989, con la caduta dell’Urss, ha segnato la fine della storia della grande sinistra italiana per come essa aveva pensato l’Italia e il mondo, e con il combinato-disposto caduta del Muro e inchiesta di Mani Pulite avvenne la fine della Prima Repubblica e della sua storia largamente gloriosa, e lo dico senza nessuna ironia.

Il primo taglio netto con la vecchia storia esaurita è stato quello dato, con forbice appuntita, da Matteo Renzi. Non mi appresto a nessuna apologia, tutt’altro, ma la scossa è venuta da lì, e o da lì si riparte o si entra in confusione. Il nuovo Pd nasce lì per la prima volta, e mi pare che il suo destino sia legato alla possibilità di dar corpo a quella svolta o di annegare tra le macerie non digerite del passato: tertium non datur. Si delineò, allora, una energia costituente vincente che iniziò a ricercare lo spazio che doveva occupare un partito moderno, agile, capace di decidere su temi difficili (articolo 18 emblema della “sinistra” su ogni altro, reinterpretazione demitizzata del mercato del lavoro e della Costituzione, messa in angolo della vecchia concertazione), collocato in una prospettiva che, per tradizione lessicale, chiamiamo di centrosinistra e che fu definito da Renzi «Partito della nazione» per indicare un partito capace di fornire una rappresentazione dell’Italia nel complicato orizzonte europeo che non è affatto dato, ma si costruisce nella tesa dialettica tra stati e nazioni e mai come ora pone questioni di tipo ultimativo. Non mi infilo nel discorso se sinistra e destra siano parole che hanno ancora un senso. Ma so che poggiare tutto su questo classico contrasto storico finisce con il costituire un paraocchi ideologico che conduce in un vicolo cieco.

Il tessuto del nuovo Pd non poteva essere né quello nostalgico e residuale di un Pci senza il Pci, né quello di una per la prima volta costituenda socialdemocrazia italiana, come se la storia fosse ferma al palo, in attesa di un evento che magari – ma non è affatto detto – doveva avvenire molti lustri prima. La storia d’Italia era andata diversamente, e d’altra parte dappertutto in Europa la vecchia socialdemocrazia mostrava e mostra la corda, e in vari modi va verso inarrestabile declino. Il 1989 era stato un segnale, con tempi diversi, di fine corsa per tutta la sinistra storica europea, come aveva inteso un grande analista quale Ralf Dahrendorf. L’unico dirigente del vecchio Pci che aveva compreso, a solo in parte, prima della svolta renziana, come stessero andando le cose, era stato Walter Veltroni, ma proprio perciò fu fatto fuori dalla vecchia guardia. La scossa renziana, dunque. Con il tentativo di individuare uno spazio politico non destinato a coprire il significato automatico di “sinistra”, come se questa parola veleggiasse tranquilla al di sopra delle dure repliche della storia e delle nuove contingenze nelle quali pensare.

Intanto, per capire qualcosa del destino del Pd, si tratta di vedere se la direzione politica di Renzi sopravviverà realmente alla sconfitta referendaria del 4 dicembre. Voglio dirlo con il massimo di sintesi: contro la scossa renziana c’è il “vecchio” che incalza, non c’è altro in attesa nello spazio Pd. C’è solo il ritorno di un recinto chiuso, asfittico, occupato da figure stanche, residuali, in parte subalterne al grillismo, in parte reduci di una storia conclusa, che non hanno niente da dire all’Italia. Molto del futuro del Pd si decide perciò sulla capacità di tenuta di quello che è stato il nuovo inizio renziano. Ma che cosa può significare una frase così sintetica? E anche così rischiosa? In una situazione che appare in parte già compromessa e nuova? Dove non esiste più un problema autonomo del cattolicesimo politico, fatti del passato, in un quadro storico che vorticosamente muta. Un nuovo inizio era necessario, dunque, e doveva essere di rottura. Una rottura che si è mossa smuovendo macigni, e poi si è come rovesciata su se stessa. Se non si cerca di comprendere la velocità di questo processo, le ragioni di questo saliscendi, diventa difficile far previsioni per un decennio.

Una vendetta delle vecchie macerie? Anche, ma non basta. La debolezza di una classe dirigente troppo personalizzata? Certo, ma neanche questo basta. Già dire: il caos in cui versa la società italiana ancora in crisi, può essere significativo, ma siccome la rottura era, a mio avviso, fondata, bisogna provare a individuare le reali debolezze sulle quali lavorare, nel prossimo decennio. Perché l’energia si è così velocemente dissipata? Non metto l’accento sui pur importanti aspetti emozionali, stimolati dalla stessa personalità ambivalente di Renzi, ma su quella che è parsa una vera e propria debolezza di cultura politica, come una mancanza di coraggio nel presentare la propria visione unitaria dell’Italia, spostandosi di problema in problema, di annuncio in annuncio. Anche le cose positive portate a compimento, e non sono state poche, talvolta immerse in un clima tanto centralistico da ignorare tutto ciò che in vari luoghi riduceva il Pd allo stremo, e qui del Pd stiamo parlando. Centralizzazione e talvolta, su temi decisivi, ambiguità. A viso aperto una battaglia ideale, colta, si può vincere o perdere, ma c’è l’obbligo per un partito che si muove tra le macerie del proprio passato di proporre idee e vedute che implichino sia una ricca ricognizione del tessuto nazionale sia una visione coraggiosa di esso.

Faccio l’esempio più clamoroso che riguarda la formulazione del quesito referendario. Possibile che in quelle domande bisognasse inseguire il tono accattivante del qualunquismo? Non penso che con una proposta espressa con lessico adeguato, colta, chiara, poggiata su un sentimento positivo della politica, si sarebbe vinto. Tutt’altro, magari. Ma resterebbe l’eredità di una battaglia combattuta a viso aperto e non perduta anche titillando gli istinti dell’antipolitica, come si va facendo anche in altri casi. Lo stesso vale per l’Europa. Bene che ci sia chi fa uscire l’Italia dalla vecchia retorica europeista. Bene dunque il criticismo del nuovo Pd renziano. Meno bene le forme usate per esprimerlo, troppo schiacciate, talvolta, su vulgate antieuropeiste che fanno parte del patrimonio di forze diverse e avversarie, quelle sì, sovraniste e populiste. Sull’Europa, duro criticismo e soprattutto forti e realistiche proposte, sapendo e dicendo che il destino dell’Italia è dentro il sistema Europa, che dentro quel sistema bisogna criticare, lavorare, fare alleanze, proposte, riforme, battaglie politiche contro i vari populismi interni che si annidano a destra e a sinistra. E per questo costruire il partito delle città (nazione-città, i due riferimenti) oggi spesso abbandonato a se stesso.

In conclusione: individuazione del nemico, dei nemici. I nemici sono annidati dappertutto, anche a “sinistra”. Mondi inconciliabili, linguaggi opposti, vedute opposte sulla funzione del partito, diverse visioni delle riforme necessarie, come il referendum, e tanto altro, hanno mostrato. Il Pd è il Pd, un partito che combatte la sua battaglia con una veduta che deve diventare sempre più chiara sul destino dell’Italia. È diventata così anomala l’idea della collocazione autonoma di un partito che per di più è nato su un distacco radicale dal passato? Chi ha paura di questa autonomia? Chi non ha la forza di portare avanti la sua battaglia, vincente o perdente che possa essere. E peraltro la condizione per vincere è farla. E se si perde, la battaglia continua, alla condizione di elaborare una cultura politica, questo per davvero tema del prossimo decennio.

Qui si annidano i veri nemici. I cinquestelle, un caso di vera patologia della democrazia, un qualunquismo populistico (populismo è parola più nobile di loro) ancor più pericoloso di quello salviniano che almeno ha il dono della chiarezza. L’ircocervo di Grillo che dice e disdice è il vero avversario da battere e forse serviranno anni e non dovranno esservi cedimenti o inseguimenti o corteggiamenti su temi su cui si giudica l’opinione pubblica sensibile. In questo quadro il Pd deve costruire se stesso, la propria identità di partito riformatore. A difesa di una democrazia rappresentativa da rinnovare, non da rigettare con il nuovo elitismo autocratico della rete. Nel quadro di un sistema europeo che, a vista d’uomo, sarà governato dai grandi Stati e dove la questione non è combattere la Germania senza la quale l’Europa non esiste, ma costringerla a un ruolo “europeo”, e l’Italia può molto in questa direzione.