Durante una campagna elettorale esistono solo segnali e non proposte. Tanto più col proporzionale che, a differenza del maggioritario, non dovrebbe dare il governo a uno schieramento predefinito. E dunque libera tutti, negandogliene il potere, dall’incombenza di adempiere perentoriamente e tempestivamente alle promesse acchiappavoti. Sicché le promesse vanno considerate tutt’al più premesse, posizioni di partenza nella trattativa con i futuri colleghi della futura maggioranza che governerà. Di cosa è premessa la promessa di Renzi di togliere il canone dalla bolletta? Di molte cose diverse, anche opposte, a seconda dei dettagli a contorno. E qui conterà moltissimo chi farà parte della maggioranza e con quali rapporti di forza interni e nei confronti dell’opposizione.
Trascuriamo per il momento l’ipotesi che dopo il 4 marzo Renzi con le sue promesse e premesse venga semplicemente spedito in qualche isola di Sant’Elena a scontare inginocchiato sui ceci la scostumatezza verso gli antichi monarchi (Banca d’Italia, testate prestigiose, zatterone dei giornalisti, intellettuali inascoltati…). In quel caso, semplicemente, per la Rai e il canone non cambierebbe nulla, mentre in caso diverso i due corni opposti tra i quali si determinerebbe un qualche politico equilibrio andrebbero dal trasformismo alla rivoluzione.
Trasformista sarebbe mantenere il finanziamento pubblico, ma cambiandone la sorgente: non più dazione ad hoc, ma mancetta annuale estratta dal monte della spesa statale. È vero che finanziando la Rai con le tasse verrebbe evitata l’ingiustizia di far pagare gli stessi 90 euro al povero e al riccone. Ma gli evasori fiscali, appena messi alle corde dal canone in bolletta, tornerebbero a scamparla, visto che l’Irpef e le altre tasse, per definizione, non le pagano. Altrimenti che evasori sarebbero! Insomma, saremmo al gioco delle tre carte, con un premio ai truffatori di professione.
Rivoluzionario sarebbe abolire totalmente il finanziamento pubblico scoperchiando nel contempo i tetti alla trasmissione di spot, che oggi imbrigliano le potenzialità di ricavo commerciale della Rai rispetto alle audience che raccoglie. Ma siccome, ben che vada, la Rai perderebbe 2 miliardi di finanziamento pubblico mentre l’aumento dei suoi ricavi pubblicitari non supererebbe, ragionevolmente, i 700 milioni, l’azienda di Stato dovrebbe per forza cambiare corpo e stazza, a partire dal grasso delle testate giornalistiche. Last but not least, quei settecento milioncini sarebbero, almeno nei primi anni, tolti essenzialmente a Mediaset, che cesserebbe di godere dei benefici del duopolio (dove il Cavallo è sì grande, ma – complici i plafond alla sua pubblicità – è impossibile che calpesti il Biscione). E qui, altro che rivoluzione, saremmo alla tregenda dell’industria dei media perché, come è sempre avvenuto nel passato, gli editori di giornali più o meno on-line farebbero scudo ai privilegi strutturali di Mediaset pur di tenersi i vantaggi, per quanto avari, dello statu quo. E saremmo pronti a scommettere che gli stessi investitori pubblicitari, che apparentemente avrebbero solo da guadagnarci, si metterebbero le mani nei capelli a causa dello sconvolgimento dei loro consolidatissimi intrecci con il mondo dei media, quale si è fondato con la cavalcata rapinosa di fine anni settanta.
Comunque, dopo le elezioni, ognuno potrà divertirsi con le mille soluzioni intermedie che fioccheranno per portare l’acqua a questo o quel mulino. Nel frattempo converrà non affannarsi per lo sventolio delle bandiere mosse dal vento di stagione che, come nel film, «non sa leggere».