Noi, d’istinto, saremmo per limitare le presenze dei politici, specie in campagna elettorale, a una apposita trasmissione denominata Tribuna Politica, con uno o due giornalisti a fare le domande e uno o più concorrenti elettorali a dare le risposte e a darsele l’un l’altro. Ovviamente la nostra è una posizione retrò, che manca di apprezzare il forte contributo culturale e sociale fornito dai talk show alla missione di “umanizzare la politica”, esibendone gli esponenti un tanto al kilo, stritolandoli fra obblighi di scaletta, niagara di applausi del pubblico di scena, intervalli pubblicitari che finanziano la baracca. Va da sé che questo meccanismo narrativo ha selezionato il battutista rissoso rispetto allo schermidore dialettico, i lessici aggressivi rispetto a quelli argomentativi, l’immediato rispetto alla prospettiva. E così i talk show, come fucine di pensiero, sono finiti un gradino al di sotto rispetto alle chiacchiere da bar del dopo partita, nel pieno adempimento della legge di Mike analizzata da Eco, e cioè porsi sotto e non sopra lo spettatore.
Ma se noi possiamo essere accusati di voler portare indietro, fino ai tempi di Jader Jacobelli, le lancette della storia televisiva, che dire dei nostalgici delle gilde medievali che per chiudere i rubinetti delle comparsate da Vespa e Fazio ricorrono all’argomento che i suddetti sono pagati – perché così hanno scelto essi stessi – non come giornalisti, ma in quanto artisti? E dunque se ne stiano lontani dalla politica per tutto il tempo delle elezioni giacché il rapporto con l’opinione pubblica è proprio del giornalismo e dei giornalisti titolati. Vecchia rivendicazione – la campagna elettorale le ha dato solo l’occasione di fare capolino – del sindacato dei giornalisti, fin qui sedata in Rai con l’oppio della moltiplicazione delle testate e della proliferazione degli organici.
E così, nel paese delle Iene e degli antivax, che si picca di diffidare di ogni titolato, guarda un po’ qual è il campo in cui il titolo viene messo in trono: il giornalismo! L’episodio, va da sé, rientra nello sventolio di banderuole proprio della campagna elettorale. Ma una sua rilevanza ce l’ha perché il solo fatto che ci si riduca ad argomenti come la verifica dei titoli rivela la esistenza di una corrente d’umore reazionaria in cui si sommano varie paure del futuro, ognuna delle quali cerca la propria cura in un qualche ritorno al passato. È il grande e multiforme arcipelago dell’indietro tutta, dalle griglie dei mestieri, all’Europa, alla scuola, al lavoro, ai politici garanti di clientela e via rinculando. La base del rancore che – come disse il Censis che ne ha titolo – alligna profondo nel paese. E che i media coccolano perché per loro natura sono mezzi di riciclaggio del senso comune corrente, anche quando corre all’indietro.