La legge è uguale per tutti, la giustizia è amministrata in nome del popolo; ma quando il popolo si appresta a votare, è nelle proposte sulla giustizia che i partiti rivelano molto della loro identità. E questo vale a maggior ragione per il Movimento 5 Stelle: se la tua promessa è quella di smantellare un sistema interamente corrotto, l’apriscatole non basta, e ti devi attrezzare con un sistema repressivo che funzioni. La mente ha bisogno di un braccio efficiente. Così sono andato a leggere il Programma Giustizia del Movimento 5 Stelle («una parte» del programma, viene precisato), elaborato con il solito metodo dei consigli degli esperti e della consultazione collettiva attraverso la piattaforma Rousseau.
Le votazioni riguardano temi molto diversi come la riforma della prescrizione, le intercettazioni, i lavori di pubblica utilità, il rapporto tra magistratura e politica, il ricorso in appello e la riformulazione della pena, ma nel complesso emerge l’idea di una giustizia in cui le indagini individuano i colpevoli, mentre il resto – il processo, la difesa, la presunzione di innocenza, le garanzie previste dalla Costituzione – fa parte di una categoria ontologica incompatibile con la loro visione del mondo, un bastone infilato nella ruota della giustizia.
La società è divisa tra onesti e disonesti, anche se non è chiaro come si possano distinguere; la giustizia è nelle mani dei primi e deve essere rafforzata in tutti i suoi principali strumenti repressivi. Si auspica un ampliamento dell’uso delle intercettazioni, perché ognuno di noi dev’essere un uomo di cristallo. «È importante allargare questo strumento ad una platea più vasta di reati», si legge nel programma. Ora, si può dire tutto il male che vogliamo della giustizia in Italia, ma non che l’uso delle intercettazioni telefoniche sia contenuto, come certificano le statistiche, che parlano di circa 114.000 intercettazioni telefoniche solo nel 2015.
Se volessimo definire una visione del mondo, partendo dalla visione della giustizia penale del programma grillino, potremmo costruire almeno un paio di episodi di Black Mirror (che già si era occupato profeticamente di loro). «La giustizia è al servizio dei cittadini – si legge nell’introduzione al programma – e tutti gli interventi in questa importantissima materia non saranno più finalizzati a tagliare e spuntare le armi, ma a migliorare l’efficienza e la qualità della giustizia». La giustizia è un’arma nelle mani del popolo, perché la giustizia grillina ha solo la spada, la bilancia è rimasta in qualche mercato rionale. La condizione carceraria è completamente dimenticata, perché riguarda dignità e diritti di chi è condannato, e quindi espunto dal consesso civile.
Nella visione distopica dei cinquestelle la società è sottoposta a uno scrutinio costante, in cui l’onere della prova è rovesciato. I processi devono punire i colpevoli, che sono già tali: c’è poco da accertare. E così, la prescrizione aiuta solo i delinquenti (anche la riforma della prescrizione che, nel frattempo, è stata varata), e i delinquenti sono i corrotti che non vengono puniti, perché non vengono scoperti. È la materializzazione dell’idea televisiva dell’Italia come uno dei paesi più corrotti al mondo, costruito sull’equivoco degli indici di corruzione percepita – percepita, non reale – che, come noto, sono più che altro indicativi dell’autostima di una società che della diffusione del reato.
Ci sono poi riferimenti alla legge sul whistleblowing (che nel frattempo è stata approvata), ma in questo campo le cose più sconcertanti sono le proposte fuori dal programma, come quella, ribadita di recente da Alessandro Di Battista, di utilizzare agenti provocatori sotto copertura per scoprire i corrotti nella pubblica amministrazione. Proposta già avanzata dal giudice Davigo, che significa, in sostanza, trattare la pubblica amministrazione alla stregua di un’organizzazione criminale.
Infine una questione apparentemente tecnica, ma che rivela ancora l’idea di una giustizia intimidatoria che concepisce solo la repressione: si propone di cancellare un principio di civiltà del nostro processo penale, il divieto di reformatio in peius, che consiste nel divieto di aggravare la pena quando è solo l’imputato ad appellare una sentenza di condanna. Per i cinquestelle questo è troppo: un imputato deve poter rischiare sempre e comunque un aggravamento di pena e così, se vuole impugnare una sentenza, deve farlo consapevolmente, a proprio rischio e pericolo. Il problema è che nel nostro sistema penale esiste già il diritto del pubblico ministero ad appellare le sentenze che non lo soddisfano, per chiedere che una pena diventi più pesante. Se non lo fa, evidentemente, considera giusto quel risultato.
Sui rapporti tra magistratura e politica c’è in compenso almeno un paragrafo condivisibile. Tra giustizia e politica, si dice, non ci deve essere alcun tipo di contaminazione, perché «ogni tipo di sovrapposizione produce effetti che si riflettono inevitabilmente sul funzionamento della nostra democrazia». E così, «se un magistrato decide di abbandonare la propria toga per entrare in politica, deve essere consapevole del fatto che non potrà mai più tornare a vestire quella toga; egli, infatti, non sarebbe più imparziale agli occhi del cittadino». Il punto è sacrosanto, il principio di separazione dei poteri negli ultimi anni si è offuscato, e se l’unica preoccupazione del Movimento 5 Stelle è evitare esitazioni all’interno della magistratura nell’affrontare reati che coinvolgono politici con cui si è militato, gli si deve ricordare che la separazione dei poteri deve valere in entrambi i sensi, anche a protezione dell’indipendenza, dell’autonomia e del primato della politica.