Si è diffusa l’idea che la tentata strage di Macerata sia stata una forma di giustizia personale. Una vendetta. Di qui si è sviluppato un dibattito completamente distorto e il centro del discorso è diventato lo stesso falso argomento che nella mente dell’attentatore giustificava la strage: l’immigrazione fuori controllo. I partiti che hanno alimentato un clima d’odio, fomentando le pulsioni xenofobe, ieri accusavano la sinistra di essere responsabile di quanto accaduto a Macerata. Sono passate meno di quarantotto ore da uno dei più gravi attentati neofascisti dopo gli anni di piombo, e il mondo sembra andare alla rovescia.
Un uomo che si mette a sparare per strada contro chiunque abbia la pelle nera e che fa il saluto fascista davanti a un monumento al milite ignoto, un uomo con un simbolo nazista tatuato sul volto e una croce celtica sul braccio, compie un atto politico ben preciso, con una matrice ideologica così evidente che non si capisce cos’altro dovrebbe fare perché sia riconosciuto e chiamato con il suo nome. Il problema è che la radice ideologica del gesto, invece di scatenare una reazione di condanna condivisa da tutte le forze politiche, è diventata l’oggetto del dibattito. A distanza di poche ore, senza nemmeno conoscere i nomi delle sei vittime, siamo stati investiti da un’ondata di avversative: ma, però, tuttavia… Il discorso è scivolato dal rischio concreto di una recrudescenza della violenza politica in Italia, dalle responsabilità di una politica che mira sistematicamente a sollevare odio e a pescare voti nell’esasperazione attraverso un linguaggio violento, alle “ragioni” di chi ha sparato.
Il tentativo di uccidere sei migranti africani per motivi xenofobi è violenza politica. Non interessa lo stato mentale dell’autore: le persone equilibrate difficilmente prendono un’arma per mettersi a sparare a caso per la strada. Ma interessa la scelta delle vittime, l’apparato simbolico di cui l’attentatore si è letteralmente rivestito, il clima politico che lo ha rafforzato nel suo proposito.
Non possiamo restare chiusi in un’equidistanza impossibile: la chiamata alla responsabilità e a moderare i toni del dibattito politico va rivolta anzitutto a quelli che usano parole come «razza bianca», «sostituzione etnica», «invasione», che raccontano di un paese sotto attacco, di una cultura in via di cancellazione. È da questi partiti che dovevano venire parole responsabili. Non solo la condanna dell’attentato, ma il rifiuto netto della sua giustificazione ideologica. Il discorso invece ha preso una piega assurda: il problema non è la xenofobia, non è il neofascismo, non è il razzismo, ma solo esasperazione e paura provocati da un’immigrazione fuori controllo. Insomma, la colpa di uno dei più gravi attentati a sfondo razzista degli ultimi trent’anni rischia di essere delle vittime, e di chi avrebbe consentito loro di trovarsi lì.
Questo non è il momento della cautela e non è il momento del silenzio, è il momento della parola, della parola che non lascia spazio alle ambiguità: o si condanna e si rifiuta ogni discorso politico violento e xenofobo, si riconosce il pericolo dell’istigazione all’odio razziale, delle ambiguità di certe posizioni securitarie, o si è complici del prossimo che deciderà di averne abbastanza.