Mentre gravi e grevi domande incombono sul post elezioni, noi – anche per distrarci un po’ – siamo andati a controllare quel che è accaduto fra le televisioni. E così abbiamo scoperto che nei giorni della “attenzione politica” (dalla domenica in cui si votava alla giornata di ieri, giovedì) solo La7 ha innalzato gli ascolti. Esattamente (se prendiamo l’andamento dell’intera giornata) di due punti percentuali, pari a 250.000 spettatori. E quel che ha guadagnato La7 è stato perduto secondo varie proporzioni da tutti gli altri. Per la Rai non è una buona notizia perché indica che la tv pubblica non è stata il luogo a cui volgersi, proprio quando te lo saresti più aspettato. Qual è l’insediamento della Rai nelle attese di comunicazione se il servizio pubblico diviene più piccolo proprio durante le temperie politiche in cui dovrebbe godere di una scontata centralità?
Poiché questo fenomeno contraddice i recenti trionfi della Rai, determinati dalle fiction e da Sanremo, siamo indotti a ipotizzare che quei successi siano una somma di casi singoli, apprezzati in sé e per sé e volta per volta, ma non grazie al marchio Rai, bensì nonostante esso. Insomma, i direttori dei programmi della Rai sanno il mestiere, e sono loro che tengono a galla l’azienda in quanto macchina di ricavi pubblicitari. Mentre non sembra davvero che sfavilli il brand, quello a cui si versa, dentro la bolletta elettrica, il canone, in omaggio a una televisiva concezione di cosa sia “interesse pubblico” (in sostanza, per assicurarsi l’esistenza dell’emittente pubblica al di là delle peregrine vicende dell’auditel).
Da quanto sopra deduciamo che l’impallidimento del brand riguarda essenzialmente i reparti giornalistici della Rai. Se la ricchezza delle testate multiple (1, 2, 3, news24, Tgr, per non dire di Vespa e Berlinguer) non regge il passo di un’unica La7, certamente sottodotata di mezzi e organico e perennemente in lotta per non finire col bilancio in perdita, vuol dire che quella dell’informazione Rai non è ricchezza, ma spreco. E meraviglia che Cottarelli non ci abbia già scritto sopra un libro, che la Corte dei Conti non si domandi se quelle risorse non debbano essere investite altrove, che Di Maio già non guardi a quel miliardo (perché questa è la cifra in ballo) per farci un pezzettino di reddito di cittadinanza, che Salvini non l’adocchi per armare le cannoniere immaginate a presidio dell’acqueo confine meridionale.
Certo, si dirà che quel tutto è sempre stato garantito dallo scambio di interessi che cementa il duopolio fra Rai e Mediaset: alla prima la corporazione più prossima al ceto politico, alla seconda il dominio del mercato pubblicitario. E siccome la corporazione giornalistica, con le sue virtù e i suoi drammi, è sempre lì, esattamente come la cura del politico Berlusconi per le prospettive delle aziende che ha fondato, vuoi vedere che la questione fa già parte dei complessi scambi che consentiranno, se lo consentiranno, l’inizio della legislatura?