Perché dovremmo allearci con il Movimento 5 Stelle? Le motivazioni che leggo in queste ore non mi convincono. Non mi convince chi dice che una parte del Pd non si vuole sedere al tavolo perché è stata insultata. Anche se vi posso assicurare che sentirsi augurare la morte, lo stupro e ogni altro genere di violenza, tutte le mattine, non è piacevole, né dai semplici militanti grillini che popolano i social network né dai loro eletti che fanno lo stesso in Parlamento, come i colleghi De Rosa o la Grillo, che sostenne mi fossi comprata il seggio. Ovviamente nessuno di loro ha mai sentito l’esigenza di scusarsi, privatamente o pubblicamente, ma non è questo il punto: qui nessuno sta facendo questione di buone maniere. Non si tratta di essere o di fare i permalosi, atteggiamento che è la negazione della politica.
Più significativo, semmai, è il fatto negli ultimi cinque anni i grillini hanno dimostrato di essere la forza politica meno affidabile e più situazionista della storia di questo paese. E parlo non solo dell’arcinota vicenda delle unioni civili, quando bastò un sms di Di Maio ai senatori per negare il diritto al riconoscimento a migliaia di bambini, ma anche degli accordi sulle questioni più semplici e quotidiane, per esempio sull’orario di chiusura delle commissioni, o su singoli emendamenti. Lo abbiamo visto mille volte: la parola dei membri della commissione poteva essere ritirata in qualsiasi momento dopo un messaggio whatsapp di Casalino, senza motivazioni e senza un battito di ciglia da parte dei parlamentari. Il che, obiettivamente, non fa ben sperare per un futuro accordo “programmatico”. Ma non è nemmeno questo il punto decisivo.
La distanza tra Partito democratico e Movimento 5 Stelle si misura anzitutto dalle diverse idee di comunità e di democrazia. Ricordo che i cinquestelle conquistano la scena nel 2007 – come movimento nazionale – durante il secondo governo Prodi, con la manifestazione di Bologna, al grido «Vaffanculo». E il simpatico invito non era rivolto solo all’odiatissimo Berlusconi, editore fra le altre cose del “pasionario” Di Battista, ma al governo del centrosinistra e al nascente Partito democratico. I cinquestelle nascono come esperimento di una società privata, che ancora oggi ne detiene marchio e piattaforma, e da un’idea molto chiara: una società che si occupa di comunicazione, nello specifico di gestione dei dati su internet, può essere più funzionale nella creazione e gestione del consenso per arrivare al potere rispetto a un partito. La democrazia interna è inutile nel migliore dei casi, altrimenti è dannosa.
Di cosa dovremmo dunque parlare con chi non riconosce neanche l’autonomia dei parlamentari, tanto meno dei parlamentari del proprio stesso partito? Con chi ancora oggi si rifiuta di fare luce sul meccanismo di scatole cinesi tra associazioni e aziende che è alla base del funzionamento dei cinquestelle? Con chi, soprattutto, punta dichiaratamente a distruggere partiti, sindacati e associazionismo per costruire, in nome della partecipazione diretta del singolo, un sistema più oligarchico, più opaco e molto meno democratico, che in ultima analisi fa sempre capo e deve costantemente rendere conto a poche persone a Milano?
Il 4 marzo i poli erano sostanzialmente tre: il centrodestra a guida leghista è arrivato primo con il 37 per cento, il Movimento 5 Stelle è arrivato secondo con il 32, il centrosinistra guidato dal Pd è arrivato terzo con il 22. Il 52 per cento degli elettori ha votato per Lega e Movimento 5 Stelle, partiti molto vicini, che hanno entrambi basato la loro campagna elettorale, a partire dal 2016, sul mantra del «tutti a casa»: a cominciare ovviamente dal Partito democratico. Vi dirò una cosa che so vi stupirà, la gente li ha votati più per questo punto che per il reddito di cittadinanza. Il «tutti a casa» era un mantra che si sentiva in ogni mercato.
Gli elettori si sono espressi, nettamente, contro di noi. Non semplicemente perché hanno votato altri partiti, ma perché in larga maggioranza hanno votato proprio quei partiti che in campagna elettorale si sono presentati come la più radicale alternativa a tutto quello che abbiamo fatto, che siamo e che rappresentiamo. Pensare che la risposta sia allearci con uno di loro, cioè con chi dalla sua nascita ha teorizzato la necessità della nostra estinzione, non mi pare la soluzione.
Sostenere poi che entrare come soci di minoranza in un governo a guida populista, senza nemmeno un rappresentante negli organi che regolamentano il funzionamento delle Camere, ci permetterebbe di salvare il paese (non si capisce peraltro come: è sufficiente avere il ministro degli Interni? O è meglio averne altri?) mi pare quanto meno irrealistico. Non si capisce per quale ragione il partito di maggioranza, una volta al governo, dovrebbe farsi ricattare da noi invece di andarsi a cercare la maggioranza che più gli è affine, a cominciare dalla Lega, sui singoli provvedimenti: non sono forse dei teorici della politica dei due forni?
C’è poi un altro dettaglio. Una volta assunta ufficialmente e stabilmente la posizione di ruota di scorta di un governo populista, il Partito democratico semplicemente cesserebbe di esistere: perché i favorevoli finirebbero ovviamente per sostenere direttamente i cinquestelle, mentre i contrari si andrebbero giustamente a cercare qualcuno che a loro si opponga. In breve, io credo che il prezzo per un esperimento del genere, destinato peraltro a fallire, sarebbe la scomparsa del Partito democratico. Di conseguenza, mi sembra piuttosto semplice decidere quale debba essere la nostra risposta alla proposta di un accordo di governo con i cinquestelle, se abbiamo a cuore la democrazia, e se abbiamo a cuore il nostro partito. La risposta è no.