Mai come in questa occasione la dialettica politica interna alle diverse componenti del Partito democratico ha avuto come oggetto del contendere una questione di enorme significato. Decidere o meno di allearsi, all’insegna del meno peggio, con il principale antagonista politico dell’intera legislatura passata, e di tutte le campagne politiche e referendarie nel frattempo condotte, non può essere ritenuto questione di stile parlamentare di tradizione proporzionalista e tantomeno il mero esercizio di una responsabilità necessaria a evitare il ricorso al voto anticipato. Ciò che separa il Pd dal Movimento 5 Stelle attiene ai valori fondanti delle rispettive organizzazioni politiche e le attraversa per intero: i diritti civili e le garanzie di libertà, il posizionamento dell’Italia nel quadro internazionale, l’idea di sviluppo e gli investimenti sulle infrastrutture, il rapporto tra cittadino, istituzioni e corpi intermedi, la ricerca medica e scientifica, la scuola e la formazione. Potrei continuare.
L’idea di costruire su tutti questi temi un compromesso tra opposte visioni, mettendo mano a un improbabile “contratto” funzionale a trovare vie di mezzo su cui far convergere una posticcia volontà comune, è apparso sin da subito, a tantissimi militanti ed elettori del Pd, velleitario e sbagliato; ma questo tentativo, condotto in modo surrettizio (con formule cioè pseudo-istituzionali) ha scatenato una reazione talmente forte, convinta e prevalente nel corpo del Partito democratico che è bastato uno sforzo ridotto per intenderlo, rappresentarlo e trasformarlo in una carta politica vincente da parte di Matteo Renzi. Viene da chiedersi quali possano essere i motivi che abbiano indotto persone munite di culture politiche sideralmente distanti dai cinquestelle ad avere anche solo ipotizzato un tale schema.
La risposta può ragionevolmente ricondursi a due campi di riflessione e valutazione, che meritano critica ma anche rispetto: il primo, quello di chi pensa che l’approdo proporzionalistico e neo-parlamentare imponga l’assunzione di un approccio dialogante e naturalmente compromissorio, pena il non funzionamento degli organi istituzionali; il secondo, più politico, quello di chi pensa che con la sconfitta del 4 marzo si sia celebrata anche la definitiva conclusione della stagione incarnata da Matteo Renzi e che l’attuale perdurante resilienza del leader fiorentino vada contrastata anche riconoscendo, almeno in parte, le ragioni di critica che lo stesso M5S ha mosso negli anni alla sua leadership. E quest’ultima è la versione di chi ha insistito, nelle scorse settimane, nel dire che lo spostamento di consenso dal PD al M5S sia stato il risultato di un abbandono da parte del Pd di temi cari alla sinistra, che invece sarebbero stati raccolti dalla proposta politica incarnata da Luigi Di Maio. Un’analisi frettolosa e rozza; ma non del tutto priva di qualche elemento di verità.
Sventato dunque il rischio di una implosione del partito, anche grazie a una mossa tempestiva e coraggiosa del medesimo senatore di Scandicci, resta intatto il tema di come possa essere correttamente intesa la fase politica attuale, quali siano stati gli errori commessi (da Renzi, principalmente) e verso quale direzione debba essere condotta l’iniziativa politica del Partito democratico nel futuro prossimo. Prima di provare a fornire un cenno di opinione su questi temi di fondo, merita però di essere formulata una premessa che attiene alla forma partito e ai suoi riti nell’epoca contemporanea.
L’esplosione premeditata del sistema partitico voluto dai padri costituenti, occorsa nel 1992-94, ha devastato tutte le organizzazioni politiche sostituendole con altre più o meno contendibili ma certamente sempre verticistiche e orientate a una permanente interlocuzione diretta con l’opinione pubblica, mettendo fuori gioco processi di determinazione delle politiche dal basso coincidenti con i processi di selezione delle classi dirigenti. Per semplificare: è evidente che nell’epoca dei social network, a mezzo dei quali i cittadini si esprimono su tutto e continuamente in tempo reale, preservare le forme organizzative novecentesche delle organizzazioni territoriali di partito non appare un’idea sufficiente ed efficace. Il tema è qui solo sfiorato ma ha molto a che vedere anche con le critiche spesso durissime rivolte a Renzi nei cinque anni trascorsi, per il modo in cui ha condotto la dialettica interna al suo stesso partito. Ma che non è, all’evidenza, un tema che può essere fatto coincidere con la personalità o il carattere o l‘indole di Renzi, ma riguarda le forme dell’agire politico contemporaneo e la ricerca dell’equilibrio tra rappresentanza, regole democratiche e rapidità ed efficacia delle decisioni da assumere.
La politica è oggi sia apparenza, percezione, che sostanza. Essa cioè è sia comunicazione, messaggio persuasivo e linguaggio, sia giudizio sulla capacità di generare i cambiamenti auspicati dagli elettori. In ordine al primo aspetto non vi è dubbio che la percezione voluta o costruita del Pd come espressione prevalente delle classi dirigenti del paese (politiche, economiche, finanziarie, culturali…) ha fatto sì che le paure, le inquietudini, la perdita di capacità economica conseguenti alla crisi abbiano fatto individuare nel Pd l’espressione più prossima a quello che viene ritenuto – a torto o a ragione – l’establishment del paese, allontanando da sé molti elettori più o meno consapevoli per il solo fatto che essi non approvano il mantenimento dello status quo e auspicano profondi cambiamenti nel modo di gestire la cosa pubblica. Vogliamo più cambiamento, è stato il refrain di una parte dell’elettorato ex pd.
Sul secondo versante, quello sostanziale, è andato oggettivamente ampliandosi lo scarto tra l’annuncio e la propaganda delle riforme fatte da un lato e dall’altro lato gli esiti concreti percepibili dai cittadini, sino a generare ripulsa e fastidio verso un racconto forzatamente ottimista e positivo della realtà. Tali giudizi non hanno travolto tutto, perché molte cose fatte sono divenute tangibili e visibili: si pensi alle politiche di crescita e di sviluppo maggiormente concentrate in talune aree urbane del paese, dove il Pd ha infatti conseguito un maggior numero di consensi rispetto alle aree periferiche e rurali. E tuttavia non è difficile cogliere come l’inversione di tendenza nella dinamica economica del Paese non abbia avuto modo di tradursi in un generalizzato miglioramento delle condizioni economiche e di vita della famiglie italiane. Su questo non v’è più ragione di dubitare della fondatezza di alcune critiche “da sinistra” rivolte alla linea politica renziana degli ultimi anni.
Serve dunque un ripudio, una penitenza, una confessione di fallimento, come pare pretendere una certa componente del Partito democratico? O è invece sufficiente immaginare una riscrittura, previa autocritica (che non può mancare), dei punti fondamentali di un progetto politico, a partire da una aggiornata e seria analisi della condizione di vita degli italiani e da una individuazione di nuove e diverse strategie di rilancio della crescita e dello sviluppo, civile ed economico? Su questo dovrebbe distinguersi, per qualità e profondità, il dibattito congressuale da avviare al più presto.
Si può non vedere come il Mezzogiorno, tra cacicchi, classi dirigenti inette e rare isole felici di ripresa, sia stato un po’ abbandonato nella definizione degli obiettivi fondamentali delle politiche economiche del paese? Si può non vedere come le difficoltà finanziarie dello Stato, ma anche conservatorismi, rendite parassitarie e riluttanza al cambiamento, abbiano provocato uno scadimento nella qualità dei percorsi formativi dei giovani, rendendo estremamente complicata la costruzione del futuro e rinviato nel tempo l’approdo a un lavoro di qualità sicuro e all’altezza delle aspettative?
Giovani e mezzogiorno, ho scelto due temi che riguardano due mondi che hanno abbandonato il Partito democratico in misura più marcata. Se tutto questo si unisce a problemi epocali come il governo dei fenomeni migratori, il contrasto al dumping dei paesi a scarsa civiltà giuridica nei confronti delle conquiste degli stati sociali europei, l’ampliarsi delle differenze non solo economiche ma anche culturali tra ceti più o meno in grado di tenere il passo della globalizzazione, si capisce insomma come l’idea di affrontare tutto questo con un semplice aggiornamento delle ricette delineate nell’atto fondativo del Partito democratico al Lingotto di Torino, risalente a oltre dieci anni fa, appaia francamente improbabile e certamente insufficiente.
Ciò non significa che il nostro paese non necessiti di riforme anche di segno liberale nel rapporto tra imprese e fisco, nel rapporto tra cittadini e burocrazia. Nondimeno, la perdita di efficacia nella capacità di rappresentanza delle organizzazioni dei lavoratori dovuta alla polverizzazione del lavoro non può non affidare alla politica un nuovo compito redistributivo della ricchezza, da non porsi in contrasto con la capacità di produrla, che pure costituisce una conquista storica della sinistra riformista fin dalla sua nascita, e che mai era stata sprigionata in modo così laico e coraggioso come negli ultimi cinque anni di vita del Partito democratico.
Ne concludo, personalmente, che qualsiasi abiura o vendetta relativa al periodo trascorso sia da contrastare, perché non dobbiamo tornare indietro, ma proseguire sulla strada delle riforme. È però altrettanto vero che insistere su versioni aggiornate e corrette dell’impianto politico del Lingotto, che pure taluno evoca, costituisce un limite altrettanto soffocante, perché la realtà è così tanto cambiata, anche nei rapporti sociali ed economici, che non si può prescindere da un’analisi diversa, e più aggiornata, della società italiana e delle sue trasformazioni: per restituire senso e concretezza ai valori fondativi di libertà, solidarietà e democrazia, messi oggi in discussione da formazioni politiche populiste e demagogiche, costruite su misura delle ambizioni dei propri leader o intrise di venature reazionarie, comunque contrarie a quel mondo aperto, libero e solidale che una sinistra degna di questo nome non può non provare a costruire.