Perché le registe donna sono così poche

Cate Blanchett, a capo della giuria del Festival di Cannes 2018, nella conferenza stampa di apertura ha rilevato come siano aumentati, rispetto agli anni scorsi, i film selezionati diretti da donne. Che quest’anno, in effetti, saranno tre, sui ventuno film selezionati, laddove negli anni passati erano uno o due. Consolazione non piccola, direi. Del resto, per trovare l’ultimo premio Oscar vinto da una donna dobbiamo andare indietro fino al 2010, quando vinse Kathryn Bigelow: nulla di stupefacente visto che negli ultimi dieci anni, dal 2009 a oggi, solo due donne sono rientrate nella cinquina finale. Nessun premio David di Donatello per la regia è stato mai assegnato ad una donna. Ma nel 1993 Francesca Archibugi vide premiato il suo film e da allora solo due registe (Labate nel 1997 e Nicchiarelli nel 2018) sono state selezionate per concorrere al premio per il miglior film assegnato ogni anno dall’Accademia del cinema Italiano. Dal 1946 a oggi solo quattro donne hanno vinto il Leone d’oro veneziano: Sofia Coppola nel 2010 e prima di lei Margarethe von Trotta nel 1981, Agnès Varda nel 1985, Mira Nair nel 2001. Una sola regista ha vinto il Leone alla regia, Shirin Neshat nel 2009.

Non va meglio alle donne con la Palma d’oro a Cannes vinta da Jane Campion (per altro ex aequo) nel 1993; la Palma per la miglior regia è stata vinta da Sofia Coppola nel 2018 e per trovare un’altra donna dobbiamo risalire fino al 1961, quando vinse la sovietica Julija Solnceva. Va un po’ meglio a Berlino dove le ultime due edizioni dell’Orso d’oro sono state vinte da due donne (l’ungherese Enyedi e la rumena Pintilie) e dove ben due donne, negli ultimi dieci anni, hanno vinto il premio per la regia (Hansen-Løve nel 2016 e Szumowska nel 2015). Nessuna tra le registe italiane, che pure sono spesso selezionate, ha mai vinto uno dei premi internazionali i cui elenchi ho compulsato.

D’altro canto, se vi chiedessi qual è l’ultimo film diretto da una donna che siete andati a vedere al cinema, avreste, forse, qualche problema a citarmelo. Dei circa cinquanta film che mentre scrivo sono sugli schermi romani solo sei sono stati diretti da donne (due sono documentari, un altro è codiretto). In un unico caso troviamo un cognome italiano, quello della italo-marocchina Mujah Maraini-Melehi, che presenta un documentario di produzione italo-giapponese. Esiste, evidentemente, una questione internazionale rispetto all’accesso delle donne alla regia, ed esiste un problema italiano assai marcato. Il rapporto dello European Women’s Audiovisual Network sull’eguaglianza di genere nell’industria audiovisiva europea ci fornisce una lunga serie di informazioni molto interessanti sul gender gap nella direzione dei film. E lo fa a partire dalla formazione.

Le richieste di ammissione al Centro sperimentale di cinematografia-Csc da parte delle aspiranti studentesse raggiungono solo il 37 cento del totale, ma il tasso sale al 42 se consideriamo quelle che terminano con successo il percorso di studi. La percentuale di partecipazione femminile, però, cala ulteriormente se consideriamo le candidature al corso di regia dove le donne raggiungono appena il 15 per cento, mentre rappresentano il 38 per cento (in media, nel periodo tra 2006 e 2013) del totale dei diplomati nello stesso corso. Va detto che il Csc, che mette a bando ogni anno circa 120 posti tra tutte le sue sedi e tutti i diversi corsi e appena sei posti per la regia, è solo una delle moltissime strade possibili per accedere alla professione di regista che, come è noto e logico, non necessita di percorsi formativi codificati.

Se consideriamo i fondi Mibact destinati alla produzione cinematografica (per opere prime e seconde, e per film di interesse culturale), negli otto anni presi in esame dal rapporto (2006-2013) i progetti di film diretti da donne candidati ai finanziamenti sono l’11 per cento del totale, medesima percentuale dei fondi assegnati alle donne, contro l’89 per cento attribuito a film con regia maschile. Le percentuali si divaricano, tuttavia, se esaminiamo separatamente le opere prime e seconde per cui le registe ottengono il 15,6 per cento dei fondi, e le opere di interesse culturale, dove si fermano all’8,9 per cento. Quindi le donne vengono penalizzate dalle commissioni ministeriali se si valuta la “qualità” del film. Se poi consideriamo il broadcaster pubblico Rai, il 21 per centro dei film finanziati – attraverso Rai Cinema – sono quelli diretti da donne, una quota minoritaria ma sensibilmente più alta di quella concessa dal Mibact. Ma la Rai dà meno denaro alle registe che conquistano solo il 14 per cento del totale di investimenti assegnati al settore.

Solo l’11 per cento dei film nazionali distribuiti nel 2013 erano diretti da donne, anche se va rilevata un’incerta tendenza alla crescita a partire dal 2006. Migliora leggermente la quota femminile se consideriamo i documentari che, però, rappresentano una quota molto limitata del mercato cinematografico. Infine i biglietti, e quindi l’effettivo successo di pubblico: i film diretti da donne raccolgono nel 2013 appena il 4 per cento del mercato (era l’1 per cento nel 2006). La rappresentanza femminile nel mondo del cinema è piuttosto ampia in moltissimi ruoli: dal montaggio alla sceneggiatura, dalla scenografia ai costumi fino, naturalmente, alla recitazione, e sono moltissime le donne aiuto regista. Ma alcuni territori sono ancora quasi vergini per le donne e quello della regia non è certo il più inviolato: sono pochissime le direttrici della fotografia, pochissime le macchiniste e le tecniche del suono. Mentre le produttrici sono sempre di più e la sceneggiatura è un terreno femminile da molti decenni, come d’altra parte la scrittura in genere.

Si potrebbe certamente attribuire la marginalità delle donne nella regia alla scarsità di modelli femminili a cui riferirsi. Oppure si potrebbe riflettere sulla difficoltà delle donne a confrontarsi senza sensi di colpa con la direzione e il comando e con i conseguenti rischi di critiche che, va anche detto senza alcun vittimismo, possono diventare nei confronti delle donne vero e proprio accanimento, fino a colpire aspetti del privato e dell’intimità che difficilmente verrebbero messi in questione nel caso di uomini e ancor meno di uomini eterosessuali. O anche al fatto che la natura stessa del lavoro registico richiede tempi di lavoro incontrollabili, lunghe assenze da casa, immersione pressoché totale nel progetto, tutti elementi difficilmente compatibili con la cura dei figli o della famiglia che la maggior parte delle donne continua a considerare – a torto o a ragione – ambito di competenza quasi esclusivo.

Ma c’è anche il fattore economico: il cinema è un’industria, fare un film costa molto, talvolta moltissimo, e in un sistema nel quale i cordoni della borsa continuano a essere principalmente nelle mani di intermediari maschi, l’investimento su una donna è ancora considerato un rischio maggiore di quello fatto su un uomo. Ma anche l’impegno sulla costruzione o sull’affinamento del talento di una donna è considerato a forte rischio. Non diversamente, oggi come trenta o quaranta anni fa, taluni decidono di non assumere una donna perché potrebbe fare figli e decidere di prendersi una pausa dalla carriera. Tutto questo perché è difficile pensare che l’universo delle donne sia “geneticamente inadatto” alla creazione delle immagini in movimento (non più di quanto, malgrado l’opinione comune di qualche decennio fa, fossero “inadatte” allo studio, alla politica o alle arti figurative).

Se il tema dell’intermediazione tra fase di ideazione e quella di realizzazione è centrale, diventa interessante capire quale sia il ruolo femminile nella più importante media company italiana che è anche la concessionaria del servizio pubblico in Italia: la Rai. Fermo restando che non si tratta di una situazione peculiare o in controtendenza netta tre le grandi imprese italiane (e tanto meno tra le società pubbliche), la condizione di carriera delle donne è un indicatore di un qualche significato. In Rai le donne rappresentano il 42 per cento della totalità dei dipendenti, sono il 48 per cento tra gli impiegati, ma scendono al 36 per centro tra i quadri, per precipitare a meno del 25 per cento tra i dirigenti. Dunque, anche in questo caso, quando si tratta di dirigere, prendere decisioni strategiche, governare invece che semplicemente eseguire, le donne diventano una minoranza incomprensibilmente esigua.

È evidente che potremmo affondare il colpo chiedendo quante siano le direttrici di grandi o piccoli quotidiani o di telegiornali (me ne viene in mente una sola tra i 7 canali televisivi generalisti, che diventano due se aggiungiamo anche i tre canali all news). Quale sia il reale ruolo delle donne nell’attuale crisi politico-istituzionale che attraversa il paese (oltre a quello, pure fondamentale, di fare analisi e domande nei talk show). Mentre scrivo la tv accesa trasmette un dibattito in cui gli ospiti – politici, commentatori, economisti – sono uomini, e la conduttrice è una donna. Mi pare chiaro, dunque, che abbiamo una questione da risolvere o almeno da iniziare ad affrontare seriamente, uscendo da dinamiche troppo egoriferite e ristrette, fatte di piccoli gruppi che talvolta sembrano lavorare più per la propria autoaffermazione che per l’uscita da un buco nero che riguarda quasi la metà di questo paese.