La riforma dell’ordinamento penitenziario è in un limbo spazio-temporale. Il governo non è ancora formalmente abilitato ad approvarla definitivamente, non avendo ricevuto il parere – non vincolante, ma prescritto – della commissione parlamentare che ancora si deve insediare. Si tratta di una riforma epocale, discussa e travagliata, necessaria per rimodernare il sistema dopo oltre quarant’anni, che il governo in carica non è riuscito ad approvare in tempo utile prima delle elezioni. Nonostante sia una riforma appoggiata trasversalmente da chiunque si occupi di giustizia, i maggiori ostacoli in questo momento sono politici, e sono rappresentati dalle posizioni di Movimento 5 Stelle e Lega, che si oppongono strenuamente a un provvedimento contrario alla loro ragione sociale securitaria e giustizialista. Ma non sono i soli.
Pochi giorni fa, il Fatto quotidiano sparava in prima pagina «Celle: falso che chi sta fuori delinqua meno». Secondo l’articolo, il ricercatore Roberto Russo («ricercatore e docente di Diritto») smonta lo studio che viene citato come fondamentale da chi sostiene la riforma penitenziaria, quello secondo cui il tasso di recidiva precipita dal 70% di chi sconta l’intera pena in carcere al 30% di chi invece la sconta attraverso misure alternative. In molti lo citano, spiega il ricercatore, ma in pochi l’avrebbero letto. Il dato non avrebbe valore per una serie di imprecisioni nell’individuazione del campione statistico e perché sarebbero rimasti fuori tutti coloro che hanno commesso dei reati una volta usciti dal carcere ma non sono stati individuati. La ricerca poi sconterebbe il fatto che le persone ammesse alle misure alternative sono già selezionate con un’attenzione all’affidabilità, una sorta di scrematura che abbassa, almeno in teoria, la possibilità che le stesse commettano nuovi reati. Considerando che la riforma penitenziaria prevede che sia sempre un giudice a occuparsi di questa scrematura, quello del professor Russo è involontariamente il migliore argomento a suo favore.
Fortunatamente Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera lo riporta alla realtà, spiegando non solo che ha scoperto l’esistenza di uno studio che era misterioso soltanto per lui, visto che sono almeno dieci anni che ne dibattono giuristi, presidenti emeriti della Corte Costituzionale, commissioni del Csm, avvocati, direttori delle carceri, ma che il professore si è evidentemente perso per strada almeno un’altra ricerca sulla migliore efficacia delle misure alternative rispetto alla detenzione esclusiva in carcere – quella degli economisti Giovanni Mastrobuoni (Università dell’Essex) e Daniele Terlizzese (dirigente di Banca d’Italia e direttore dell’istituto Einaudi per l’economia e la Finanza), con la banca dati del ministero della Giustizia e la collaborazione della giornalista del Sole24ore Donatella Stasio – che con un metodo ineccepibile raggiunge gli stessi risultati, anche se con percentuali diverse.
Proprio queste ricerche, al di là della dimensione del dato statistico, hanno confermato l’esistenza di un nesso scientifico: la sicurezza dei cittadini, intesa come aspettativa di non essere vittime di reati commessi da detenuti reinseriti in società, è maggiore se i condannati scontano una parte della pena con le misure alternative. Nesso scientifico inconcepibile per chi, invece, ha bisogno della paura per legittimare le proprie scelte o per chi avversa la riforma dell’ordinamento penitenziario perché potrebbe, astrattamente, beneficiarne un avversario politico.
Ma non è solo questo. C’è qualcosa di profondamente antiscientifico, quasi da no-vax del diritto, nell’usare le legittime opinioni di un singolo ricercatore e docente di Diritto senza nemmeno spendere qualche riga sul suo curriculum che ci permetta di farci un’idea della sua autorevolezza sulla materia, per contrastare le ragioni di una riforma che è il frutto di studi e dibattiti decennali, commissioni, stati generali dell’esecuzione penale ed è auspicata praticamente da chiunque si occupi di giustizia – magistrati, avvocati, associazioni come l’Associazione italiana dei professori di diritto penale, l’Associazione tra gli studiosi del processo penale, l’Unione Camere penali italiane, il Consiglio Nazionale Forense, Magistratura democratica, Area democratica per la giustizia, Antigone, la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia – e soprattutto da alcuni tra i più grandi giuristi italiani. Tra questi Edmondo Bruti Liberati, Adolfo Ceretti, Emilio Dolcini, Giovanni Fiandaca, Elvio Fassone, Glauco Giostra, Carlo Federico Grosso, Vittorio Lingiardi, Ernesto Lupo, Sergio Moccia, Valerio Onida, Francesco Palazzo, Andrea Pugiotto, Domenico Pulitanò, Gaetano Silvestri, Domenico Siracusano, Armando Spataro, Vladimiro Zagrebelski.
Alcuni sono nomi conosciuti, altri forse meno per chi non si occupa di diritto, ma li potete trovare su decine di manuali; e con tutto il rispetto per la democrazia scientifica e la libertà di espressione del docente e ricercatore di Diritto, dovrebbe ancora contare qualcosa.