C’è qualcosa di più significativo del «contratto di governo», a ben vedere, che unisce Lega e Movimento 5 Stelle. Questa convergenza ha radici più profonde, nel linguaggio e nel racconto del paese che entrambe le forze politiche hanno adottato negli ultimi anni, in un incrocio di sentimento antistato e di disprezzo verso la faccia liberale della democrazia. È l’oscurantismo il vero collante di questa nuova alleanza. Il loro linguaggio comune nasce dalla rottura del patto tra cittadini e stato, da un profondo rancore verso gli istituti fondamentali della democrazia liberale come descritta nella Costituzione: lo stato di diritto come forma di tutela dei diritti individuali, la democrazia rappresentativa come forma della partecipazione politica, il lavoro come forma della partecipazione dei cittadini alla vita economica del paese.
La Lega rispecchia la destra bifronte rappresentata da Trump e Putin: uno stato ridotto al minimo delle sue funzioni redistributive, come emerge chiaramente dalla proposta di introduzione della flat tax e dalle promesse di condono fiscale, ma iperattivo sul terreno della salvaguardia dei confini, della politica dei respingimenti e della repressione della microcriminalità, con l’incoraggiamento all’autodifesa armata. Diverso, ma ispirato alla stesso sentimento, è stato (ed è) il discorso politico dei cinquestelle, basato su una diffidenza nei confronti dello stato storicamente radicata nel mezzogiorno del paese. Dove per la Lega c’è lo stato minimo, per i cinquestelle ci sono il reddito di cittadinanza e la chiusura dello stabilimento Ilva di Taranto, espressione della sfiducia nei confronti della politica della piena occupazione e dell’investimento pubblico (oltre che coerente con la tendenza a monetizzare il welfare a danno dei servizi pubblici, bersaglio indiretto della ormai decennale marcia dei pentastellati).
D’accordo sulla politica dei Cie e dei rimpatri forzati, indifferenti o del tutto ostili al riconoscimento dei diritti civili, contrari all’obbligo di vaccinazione dei bambini, pronti ad aumentare le pene per i reati minori e a moltiplicare le strutture carcerarie, i due partiti che si apprestano a guidare il paese manifestano una chiarissima assonanza nella propria cultura repressiva. Nel loro discorso politico il contrasto ai fenomeni sociali degenerativi viene affidato esclusivamente a magistratura e forze dell’ordine. Lo stato sorveglia e punisce, ma non concede margine di riscatto.
Ciliegina sulla torta, la pretesa di modificare la Costituzione attraverso la cancellazione della libertà di mandato di deputati e senatori, volta a disegnare un sistema parlamentare dove la libertà di giudizio e la libertà di coscienza del singolo vengono sostitute da un mandato imperativo di vertice: Rousseau e la tirannia della maggioranza che travolge i diritti individuali sono non a caso un riferimento costante dei cinquestelle. Del resto la loro battaglia ha sempre avuto come bersaglio principale gli istituti della democrazia rappresentativa, nel nome di una più efficiente semplificazione referendaria.
È dunque con un attacco ai principi cardine della democrazia rappresentativa e alla divisione dei poteri che il Partito democratico deve fare i conti, liberandosi delle tante ambiguità che da troppo tempo finiscono per legittimare il discorso politico della maggioranza oscurantista. Dal crollo del muro di Berlino e della repubblica dei partiti, la triade maggioritario-giustizialismo-liberismo ha rappresentato la resa delle nostre culture politiche a quelle stesse pulsioni, ostili al ruolo dei partiti, al valore della mediazione e alla centralità del parlamento. Oggi ne vediamo gli effetti. I magnifici ragazzi che in queste ore si stanno contendendo ministeri e incarichi si sono abbeverati a queste fontane. E noi ci troviamo di fronte al paradosso di doverci liberare di alcune vecchie parole d’ordine per potere contrastare la deriva, sperando di rovesciare il tavolo il prima possibile. Non nascondiamoci che con l’Italiacum, o qualsivoglia sistema di riduzione a due delle offerte politiche, una delle due “maggioranze relative” avrebbe governato da sola senza lasciare margine di contrasto alle altre forze. Se oggi lo spazio di una battaglia è ancora aperto lo si deve alla Corte costituzionale, che ha reso la legge proporzionale l’unica possibilità a disposizione del vecchio parlamento. Stupisce che la reazione alla sconfitta possa essere ancora una volta il rilancio di sistemi di semplificazione della rappresentanza congegnati per assicurare vincitori anche quando non titolari della maggioranza dei consensi, tanto più mentre in parallelo si adombrano dubbi sulla tenuta democratica di alcune delle principali forze politiche italiane.
A pagare questo spirito del tempo, lo sappiamo, saranno i più deboli. Tra l’incudine del degrado delle città e il martello di questa nuova maggioranza saranno sempre di più i poveri, gli stranieri, le minoranze, e tutti coloro che non avranno abbastanza buoni avvocati e giornalisti amici a difendere i loro diritti. Anche su questa condizione pesa la nostra povertà culturale. Avere additato gli immigrati a minaccia per la tenuta democratica del paese ha contribuito ad alimentare il clima che respiriamo. Tutti gli italiani che hanno fiducia nella ragione, nella tolleranza, nel lavoro, stanno assistendo sbalorditi all’autoesilio dell’Italia dallo spirito europeo, che vale molto più di qualsiasi trattato. Questo è l’esito vero della Seconda Repubblica. Fare la Terza sarà compito di chi avrà il coraggio di rovesciare questo racconto distopico. A chi tocca, se non al Pd?