La nascita del governo più pazzo del mondo, al termine della crisi costituzionale più grottesca della storia repubblicana, rappresentava obiettivamente la conclusione meno peggiore tra le alternative rimaste. Essendo le alternative rimaste la guerra civile, il golpe militare e la bancarotta finanziaria (non necessariamente in quest’ordine). Certo la gestazione non è stata semplice e il parto è stato tutt’altro che indolore. Tre mesi filati di travaglio in diretta televisiva avrebbero stroncato persino le tempre più resistenti. Ma dopo una richiesta di messa in stato d’accusa del capo dello stato e l’annuncio di un paio di marce su Roma da parte dei vincitori delle elezioni, per stare solo alla cronaca degli ultimi tre giorni, bisogna sapersi accontentare.
Vedremo se il lieto annuncio della ri-nascita del governo Conte basterà a far dimenticare le deliranti settimane che l’hanno preceduto, o se un giorno, al contrario, ricorderemo questa vicenda come l’inizio del risveglio, il primo segnale dell’abbassarsi di quella febbre giallo-verde che per un momento sembrò capace di travolgere tutto: la Costituzione e la presidenza della Repubblica, il parlamento e i partiti, il senso dello stato e il senso del ridicolo. Comunque sia, la conclusione della telenovela permette, se non altro, di tirare qualche provvisoria conclusione e provare a fissare alcuni punti fermi per il futuro. Ammesso che l’Italia ne abbia ancora uno.
Il primo punto fermo è che questa situazione non è colpa della legge elettorale, del proporzionale o della mancata riforma costituzionale, come amano ripetere, con diversa intenzione, tanto Matteo Renzi quanto i suoi più affezionati stalker politico-editoriali. Questo governo non è un accidente della storia. Non è un caso se la stragrande maggioranza degli elettori di Lega e Movimento 5 Stelle voleva esattamente questo esito, come non è un caso se i due partiti si sono potuti accordare così bene per dividersi tutte le cariche istituzionali sin dal giorno dopo il voto (tra loro e con il resto del centrodestra), come non è un caso se hanno trovato un accordo così pieno e soddisfacente per entrambi sul programma di governo. Pensare che se il Pd si fosse seduto al tavolo del “contratto” avrebbe potuto ottenere un programma democratico e di sinistra, con la progressività fiscale al posto della flat tax, la tolleranza e il rispetto dei diritti di tutti al posto del fanatismo e della caccia all’immigrato, il garantismo al posto del giustizialismo e il riformismo europeista al posto della demagogia antieuropea, significa semplicemente non volere vedere la realtà. Ma basta ascoltare quello che dicono dirigenti, militanti ed elettori del Movimento 5 Stelle e della Lega, per capire che non c’è nulla di più naturale della loro alleanza. Come dice il proverbio: chi si somiglia si piglia. Ma soprattutto: dove c’è gusto non c’è perdenza. Non per loro, almeno.
Il secondo punto fermo è che, ironia della storia e del calendario, il primo voto nazionale su cui si misurerà il grado di consenso di questo governo sarà quello delle elezioni europee, giusto tra un anno. Elezioni in cui si voterà con il proporzionale. Il Partito democratico potrebbe trovarsi pertanto nella posizione migliore per presentarsi a quell’appuntamento come la principale forza di opposizione a un esecutivo che nasce da una larghissima convergenza, politica e programmatica, tra tutte le componenti della destra italiana (compresa Forza Italia, perché senza l’esplicita autorizzazione di Silvio Berlusconi, come è noto, non si sarebbe fatto nessun governo). A condizione, va da sé, che il Pd sappia affrontare ora in modo aperto, costruttivo e coraggioso la fase difficile e non più rinviabile della discussione interna, che dovrà passare da una seria analisi delle ragioni della sconfitta e non potrà concludersi senza un congresso che dia una chiara indicazione sulla strategia per il futuro. Non è dunque il momento di ricominciare l’ennesima giostra di riunioni, comitati unitari e discussioni concentriche per rimettere insieme un’altra coalizione-carrozzone per cui mancherebbe comunque la materia prima (quali sarebbero i grandi partiti da federare attorno al Pd?) e di cui non si vedrebbe nemmeno l’utilità pratica (alle europee del 2019, ripetiamo per gli smemorati, si vota con il proporzionale).
Sgomberato il campo dalla pericolosa idea che il Movimento 5 Stelle potesse rappresentare la vera sinistra, al Partito democratico spetta ora il compito di costruire non solo e non tanto l’alternativa ai partiti populisti, quanto l’alternativa al discorso populista. Qualcosa che manca all’Italia da molti anni. Ed è questo il vero motivo – non la legge elettorale, non il destino cinico e baro, non le mosse del Pd dopo il 4 marzo – per cui oggi la destra ha la guida del governo e una larghissima maggioranza parlamentare (ben oltre la somma Lega-M5S). Ma non è un compito che i dirigenti del Pd potranno assolvere da soli: l’elaborazione di un nuovo discorso pubblico per una sinistra che sia davvero altro dal blocco populista-sovranista è la sfida con cui dovrà misurarsi anche una nuova leva di intellettuali, osservatori e commentatori. Perché c’è poco da fare: se anche le critiche a questo governo continueranno a seguire la stessa logica, e al presidente del Consiglio in taxi si contrapporranno avversari in triciclo e giornalisti in monopattino, non ne usciremo mai. Un’altra ragione, e non l’ultima, per diffidare da coalizioni improvvisate.