Il presidente della Repubblica ha incontrato ieri Matteo Salvini per discutere temi di politica interna. Sembra non siano state oggetto del colloquio valutazioni su decisioni della magistratura. Si è quindi trattato di un surrogato dell’incontro chiesto veementemente da Salvini qualche giorno fa in relazione alla sentenza della Corte di Cassazione sul sequestro ai danni della Lega per la truffa in materia di rimborsi elettorali. Salvini ha in proposito dichiarato che si tratterebbe di una sentenza politica, di un attacco alla democrazia del nostro paese. Proviamo a tradurre in termini istituzionali: un alto rappresentante del potere esecutivo, ministro degli Interni e vicepresidente del Consiglio, contesta in sé, perché contraria a un partito di governo, la pronuncia della massima espressione del potere giudiziario ordinario del nostro paese, coinvolgendo il garante dell’unità dello Stato e della Costituzione, il quale tenta, con fatica, di neutralizzare l’indebita chiamata in causa. Le dichiarazioni di Salvini hanno inteso mettere in discussione la possibilità, per il potere giudiziario – che nella logica dello Stato di diritto è autonomo, indipendente e sottoposto esclusivamente alla legge – di pronunciarsi nei confronti di una forza politica che, in quanto legittimata dal voto popolare, vorrebbe essere considerata al di sopra di tutto e di tutti. La semplice richiesta di un incontro su questo tema al Capo dello Stato, che è per primo chiamato a rispettare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, è incompatibile non solo con la nostra Costituzione ma con la cultura giuridica dei paesi occidentali, perché manifesta la pretesa inattaccabilità giuridica di chi pensa di incarnare la volontà del popolo.
Purtroppo non c’è da stupirsi di fronte all’ennesima allarmante uscita degli esponenti di questa maggioranza. Il pensiero torna piuttosto a poco più di un mese fa, ovvero all’attacco al presidente della Repubblica, reo di essersi opposto alla nomina di Paolo Savona a ministro dell’Economia, e quindi di aver ostacolato i sacri desideri del popolo. Questa insofferenza nei confronti dei limiti che incontra il potere della maggioranza ci impone di puntualizzare concetti (a partire da democrazia e Stato di diritto) che dovrebbero risultare scontati.
La democrazia è quella forma di governo che individua nel popolo il soggetto sovrano legittimo. Lo Stato di diritto comprende principi, norme e procedure che, regolando gli ambiti e le modalità di esercizio del potere, garantiscono tanto uno spazio vitale di libertà del cittadino, inattaccabile anche da parte di chi detenga il potere politico, quanto il perseguimento dell’interesse generale della comunità. Il nostro sistema istituzionale si configura, come è noto, secondo i principi dello Stato costituzionale. Non semplicemente secondo i principi dello Stato democratico ma secondo i principi dello Stato di diritto democratico. La differenza non è di poco conto: non ci si trova in uno Stato di diritto quando, come più volte è successo anche in Europa, la democrazia si riduce alla tirannia della maggioranza, all’abuso del potere dei molti, all’omologazione di massa, quando, cioè, ci si dimentica dell’ammonimento cartesiano a non confondere la maggioranza dei suffragi con la prova della verità. Non a caso i nostri costituenti, con il secondo periodo del primo articolo della Costituzione, laddove si stabilisce che l’esercizio della sovranità da parte del popolo debba avvenire nelle forme e nei limiti della Costituzione, intendevano scongiurare la deriva autoritaria e plebiscitaria dei fascismi.
Ma se tutto questo appare ovvio, e se la combinazione tra democrazia e Stato di diritto mira a proteggere la libertà di ciascuno di noi, come mai ci troviamo periodicamente di fronte all’insofferenza dei rappresentanti della maggioranza di turno (è accaduto anche negli anni del berlusconismo) nei confronti di tutto ciò che limita l’esercizio del potere? Si potrebbe liquidare la questione riducendola alla naturale tentazione, da parte di chi ha ottenuto il consenso di milioni di persone, a ritenersi sciolto da qualsiasi vincolo esterno; si tratterebbe di una sorta di malattia professionale del potente legittimato democraticamente. Tuttavia, quando la tentazione non riguarda soltanto il leader, quando il sentimento di onnipotenza della maggioranza si coglie nelle conversazioni private, nelle chiacchiere al bar, nei post sui social network, con inquietanti picchi di violenza sin qui verbale, allora vuol dire che le ragioni sono più profonde. Non si spiegano soltanto con il disagio sociale, con la crisi economica o con la protesta contro l’establishment. Hanno probabilmente a che vedere con un retaggio antropologico che ricorda il passo del Grande Inquisitore nei Fratelli Karamazov di Dostoevskij: «La preoccupazione più assillante e tormentosa per l’uomo, fintanto che rimane libero, è quella di trovare al più presto qualcuno da venerare». Una venerazione istintiva nei confronti del mito del popolo stesso, della maggioranza, della massa, del suo leader. E tutto questo è pericoloso, come ogni forma acritica di adesione, perché nasconde la rinuncia a pensare con la propria testa, a mettersi nei panni degli altri, ad avere un pensiero largo.
Rimane quindi incancellabile il fragore minaccioso di quella volontà di potenza illimitata esplosa nel paese dopo il discorso del presidente della Repubblica. Un fragore che non è scemato dopo la formazione del governo, ma che si è anzi amplificato fino all’attacco contro la Corte di Cassazione, senza trascurare la squallida esibizione di potere che sta accompagnando le dichiarazioni e le scelte in tema di immigrazione, in contrapposizione alle regole che l’idea stessa dello Stato di diritto pone a tutela di ogni singolo essere umano. Come da più parti è stato ricordato in queste settimane, anche nel crepuscolo della Repubblica di Weimar, così come oggi nel nostro paese, il disagio sociale era ampiamente giustificato. Ad avere il sopravvento fu un istinto di onnipotenza che si abbatté contro la fragile trama istituzionale ordita dalla giovane Costituzione tedesca del 1919. Un illustre giurista che ebbe la ventura di vivere quella stagione, Gustav Radbruch, dopo la fine della seconda guerra mondiale scrisse: «La democrazia è sicuramente un bene prezioso, lo Stato di diritto tuttavia è come il pane quotidiano, come l’acqua da bere, come l’aria da respirare, e la cosa migliore della democrazia sta proprio nel fatto che solo essa è in grado di assicurare lo Stato di diritto».