Un’idea ci insegue (peraltro già accettata in molta pubblicistica anglosassone) ed è che le generazioni cresciute con internet siano, rispetto ai loro genitori e nonni, meno interessate alla democrazia e più convergenti verso l’autoritarismo, a partire dal nesso fra “fatti” e “verificabilità” ovvero dal tema della “Verità”. Gli autoritari d’oggi, a differenza dei loro truci antecedenti, non pare abbiano una verità da imporre, avendola sostituita col “buon senso”, che adoperano come una tavola per fare il surf sulle “filter bubbles” generate dalle logiche stesse dei social network. E surfando incontrano i giovani millennials, quelli che crescono coi social, sicché mentre gli anziani di oggi “accomunavano” le individualità condividendo la medesima tv, essi costantemente si diversificano in cerchie di simili, agglutinate da opinioni piuttosto che da verità.
Dal canto suo la verità in se stessa, anche per chi la coltiva, esiste per essere confutata. Come specialmente capita quando l’evoluzione del mondo apre spazio a fasi di babele degli impulsi che si rivoltano contro la verità corrente e spediscono alla ghigliottina le teste degli esperti. Insieme con quelle di chiunque campi di Verità, compresa la stessa democrazia, perché l’agorà, in assenza di baricentro concettuale, annaspa. Social a parte, è una situazione non nuova, perché ogni verità muore col suo mondo: dopo la caduta dell’Impero romano, dopo la Grande guerra, dopo il gioco fisso fra Occidente, sovietici e Terzo mondo. Figuriamoci ora che la globalizzazione mischia le carte della società e delle idee, nelle e fra le nazioni, come neanche i panni dentro la lavatrice! Eclissi già vista, sì. Ma che oggi deve fare i conti anche con la presenza dei social. Una crisi che, a beneficio della democrazia, dovrebbe essere presa di petto proprio da parte delle variegate culture liberaldemocratiche che più ne sembrano messe in scacco. Non tanto affannandosi ad aggeggiare in fretta una qualche Verità nuova di zecca, ma attrezzandosi a cercarla e a navigare nel contempo – e quanto a lungo non si sa – nel mare delle verità polverizzate. Fuori dai social, ma anche e specialmente al loro interno.
Certo, sappiamo che i social network, per struttura e modello di business, sono perfettamente aderenti alla psicologia del consumatore che con essi è divenuto comunicatore e opinionista. Proprio per questo costituiscono un terreno ingrato per il “pensare liberale” che è figlio dell’Illuminismo e per questo contiene un nucleo elitario, refrattario al “consumo”. Come imparammo in Italia a cavallo fra gli 80 e i 90 allorché Publitalia, badante dei consumi di massa, sbaragliò i mandarini letterati della Prima Repubblica. Ecco perché è inutile indorar la pillola e tocca ammettere che lo sforzo richiesto al pensiero e all’azione “liberale”, variamente assortita da destra a sinistra, non è da poco. Sforzo culturale, organizzativo, ma anche finanziario, a giudicare dalla foto di gruppo dello squadrone dei social strategist di Salvini. E sforzo politico, chiudendo gli occhi sull’attuale campo d’Agramante dell’ipotetico fronte non populista. Però l’impossibile diventa realistico quando è indispensabile. E qui si tratterebbe di raddrizzare una democrazia sciancata, altrimenti pronta a stramazzare. Sotto il peso del buon senso.