Bisogna ammettere che la copertina dell’ultimo numero dell’Atlantic fa una certa impressione, con quel gigantesco titolo: «La democrazia sta morendo?», e una sfilza di articoli a descrivere i diversi stadi della sua lenta agonia, in America e in Europa. Curiosamente, tra tante analisi e approfondimenti sulle ragioni del possibile tramonto dell’Occidente liberaldemocratico, l’autorevole rivista non dedica una riga alle responsabilità di Renzi e del Pd. Una mancanza tanto più singolare se si pensa che in Italia, osservatorio privilegiato di questo fenomeno globale, non c’è autorevole scienziato della politica, costituzionalista, scrittore o regista che ancora oggi non metta al primissimo posto, tra le cause scatenanti, proprio il Partito democratico: la sua insipienza al governo prima e il suo crudele rifiuto di fare da portatore di voti a un governo Di Maio poi.
La divaricazione tra il dibattito in corso nel resto dell’Occidente e la discussione di casa nostra è tale da suscitare, in qualunque osservatore imparziale, un dilemma angoscioso: che tutto il resto del mondo stia vivendo e commentando una sorta di realtà parallela, o che lo stiamo facendo noi. Per essere onesti, dobbiamo però riconoscere l’esistenza di una terza possibilità: che siano vere entrambe le ipotesi. Se infatti da noi l’opposizione al governo gialloverde non sembra ancora in grado di rappresentare una credibile alternativa, non si può dire che negli Stati Uniti l’opposizione a Trump stia raccogliendo maggiori successi, mentre la Casa Bianca celebra il primo anniversario del movimento #MeToo con il giudice Brett Kavanaugh alla Corte suprema. Una nomina giunta al termine di una battaglia feroce, che rischia di determinare – non solo per il radicale spostamento a destra degli equilibri all’interno della corte, ma anche per il modo in cui ci si è arrivati – un altro deciso passo verso la democrazia illiberale da parte del paese guida dell’ordine liberaldemocratico.
Rispetto all’Italia, in America sembra esserci tuttavia maggiore consapevolezza del pericolo, anzitutto tra le famigerate élite, tra i giornalisti e gli intellettuali più autorevoli, ma pure all’interno del partito democratico, dove anche le correnti più radicali si guardano bene dallo sparare sul quartier generale, non parliamo di promuovere scissioni o nuovi partiti. Da noi, anche volendo sorvolare sul carattere autodistruttivo del dibattito precongressuale in corso nel Pd o sulla mesta agonia di Liberi e Uguali, non possono non richiamare l’attenzione, simili a quei movimenti microcellulari capaci di illuminare il funzionamento di un intero organismo, le minacce di scissione all’interno di Potere al Popolo e al suo rivoluzionario 1,1 per cento.
È possibile che la furia autodistruttiva si plachi in tempo per evitare di trasformare le elezioni europee nel suicidio collettivo di ogni possibile opposizione? Le premesse certo non inducono all’ottimismo. L’idea di ricostruire l’opposizione partendo dalla demolizione dell’unico partito di opposizione ancora in piedi non sembra convincente. Ma anche l’idea che il dibattito congressuale nel Pd possa ridursi allo scontro tra sostenitori di Corbyn e amici di Macron appare decisamente al di sotto del necessario. Tanto più se finisse per riprendere le forme dell’ennesimo scontro tra renziani e antirenziani, con i primi a sostenere che hanno sbagliato gli elettori a non votare per il Pd e i secondi a dire che hanno fatto benissimo. Due eccessi opposti, ma ugualmente respingenti.
Il Pd non uscirà dalle sue difficoltà con gli atti di contrizione. Tanto meno con un’autocritica che si traducesse, da un lato, nel rimpianto per non essere stati più grillini dei grillini (sulla giustizia, sui costi della politica, sulla spesa sociale), e dall’altro, temiamo, persino più leghisti dei leghisti, ad esempio su immigrazione e sicurezza. Se questo fosse il confronto tra la destra e la sinistra interne al Partito democratico, tanto varrebbe passare direttamente con l’uno o con l’altro dei partiti di maggioranza, diffidando delle imitazioni tardive. Semmai, se una vera e sensata autocritica si volesse chiedere al Pd (e non solo al Pd), bisognerebbe chiedere conto di quanto in questi anni, nell’illusione di “asciugare l’acqua in cui nuotano i populisti”, si sia dato loro sempre nuovo e maggiore alimento.
Tutti ottimi argomenti per una proficua discussione, che si potrà fare comodamente dopo essersi accertati di avere evitato la bancarotta, l’uscita dall’euro e la trasformazione dell’Italia in una sorta di Stato canaglia alla deriva nel Mediterraneo. Perché è questa la posta in gioco: un’uscita traumatica dall’euro attraverso una crisi economica autoinflitta, ma ovviamente subito addebitata ai nemici esterni di Bruxelles e alle sue quinte colonne interne (quelli che “tifano per lo spread”). Non si tratta del Piano B di questo governo, ma del Piano A. Il Piano B, semmai, è l’illusione che sia l’Ue a saltare per prima, e questa infatti è la nota dominante della campagna elettorale, già in pieno corso, per le elezioni europee del 2019. Lo confermano, al di là dei sorrisi in favore di telecamera, gli stessi populisti europei, quando si discute di migranti (che i sovranisti del resto d’Europa sono fermamente intenzionati a tenere o a rispedire in Italia), ma anche di deficit e vincoli di bilancio. Come ha detto in questi giorni Alice Weidel, leader di Alternative für Deutschland, commentando la politica economica annunciata dal governo Conte, di questo passo «rischiamo un default disordinato invece che ordinato». E così si torna, ordinatamente, al piano B.
Come è evidente a tutti, si tratta di un piano inclinato, in fondo al quale ci aspetta non solo la bancarotta finanziaria, ma una minaccia radicale alla tenuta della nostra democrazia costituzionale. Questa, però, non è una buona ragione per perdersi d’animo. Checché ne dicano i sondaggi – del resto, quando mai ci hanno indovinato? – l’Italia ha tutte le risorse, politiche, intellettuali e morali, necessarie a respingere l’assalto. Ma devono prenderne coscienza.