E così sono quindici anni di questa strana rivista, nata come una specie di newsletter, qualcosa in meno di un giornale e qualcosa in più di un blog – qualche antipatico scrisse: una «fanzine» – un sito al tempo stesso avveniristico e anacronistico, specie all’inizio, persino nel linguaggio di programmazione (ma della delirante idea di un sito interamente in flash, nel 2003, parleremo un’altra volta). Una piccola pazzia che a un certo punto si è incarnata in qualcosa di più serio, o forse meno: una sorta di bimestrale che usciva, con una certa regolarità, un po’ quando ci pareva. Nel frattempo, accanto alla rivista cartacea e alla rivista online, è nata persino una radio. Per non parlare delle mille iniziative di vario genere che abbiamo intrapreso in giro per l’Italia, una festa annuale che è giunta ormai alla sua sesta edizione, e un sacco di altre cose (per ogni più dettagliata informazione sulle nostre macchinazioni e sui nostri secondi fini si può consultare, come sempre, la raccolta di ricostruzioni tendenziose saltuariamente riportate nella rassegna stampa).
Insomma, quindici anni fa Left Wing era solo un piccolo ritrovo di sbandati, più o meno giovani, più o meno disoccupati e per niente carini, anzi fermamente decisi a essere il meno carini possibile con tutto quello che non ci piaceva – della sinistra, della politica e dell’Italia – che era, obiettivamente, parecchio. Nel 2003, a sinistra, era appena cominciata la battaglia per la costruzione del Partito democratico, e noi, presuntuosamente, di quel progetto ci sentivamo addirittura l’avanguardia (del resto tutte le avanguardie, nel campo della politica non meno che in quello dell’arte, hanno qualcosa dei dispersi e degli sbandati). Bisogna ricordare che quindici anni fa l’obiettivo del Partito democratico – o meglio, come si diceva allora, del Partito riformista – aveva ancora molti meno amici che nemici. E tra questi ultimi gran parte di coloro che dal giorno dopo sarebbero passati per suoi fondatori e padri nobili, ma all’epoca bollavano l’idea come «fusione fredda» tra Ds e Margherita, instillando da subito nel dibattito quel veleno populista e antipolitico che presto avrebbe cominciato a corroderne le basi. E oggi anche di questo misuriamo i risultati. Questa fu la nostra prima e principale battaglia: la battaglia affinché il Partito democratico nascesse come il partito che chiudeva i conti con la cultura politica della Seconda Repubblica (giustizialismo, liberismo e presidenzialismo maggioritario). E cioè esattamente al contrario di come, alla fine, nacque.
Più volte battuti ma mai sconfitti, pigri ma non domi, alla lunga ci siamo sempre ritrovati tra queste pagine, comunque e ovunque prendessero forma, cartacea o virtuale, perché convinti di avere ancora, nonostante tutto, qualcosa da dire. Parlando di politica, della sinistra e dell’Italia, in fondo, anche quando parlavamo d’altro: televisione e telefilm, cinema, musica, letteratura. Infatti, come l’insegnante di guida della poesia di Brecht, che gli raccontava barzellette e lo esortava a fumare un sigaro durante il tragitto per non concentrarsi troppo, anche noi, da passeggeri della politica come da occasionali conducenti, sappiamo che c’è sempre da preoccuparsi, nel vedere un guidatore troppo intento alla guida. E così abbiamo chiesto a noi stessi, e ad alcuni dei tanti che in questi anni hanno fatto un po’ di strada con noi, di raccontarci un pezzo di viaggio, ognuno a suo modo, ognuno come gli va (o anche, come al solito, quel che gli pare).
Quanto a noi che quindici anni fa abbiamo cominciato a scrivere qui per affermare la necessità di fondare il Partito democratico come argine alla deriva populista della sinistra, e oggi lo vediamo minacciato nella sua stessa esistenza dalla deriva populista dell’Italia, non possiamo certo dire di averle azzeccate tutte. Ma possiamo dire serenamente di avere individuato per tempo il pericolo e di avere azzeccato almeno le preoccupazioni: quando abbiamo cominciato erano i tempi – è doloroso, ma va ricordato – in cui Marco Travaglio scriveva sull’Unità. Del resto, è stato proprio il fondatore di quel giornale, Antonio Gramsci, a scrivere che nei periodi di crisi, quando il vecchio muore e il nuovo non può nascere, si verificano i fenomeni morbosi più svariati. Periodi di crisi come quello che stiamo vivendo, in cui Roberto Fico o persino Luigi Di Maio – è doloroso, ma va ricordato anche questo – possono passare per leader della sinistra (mentre, come abbiamo già avuto modo di sostenere qui, non sono che i follower della nuova destra). E qualcuno, anche dalle parti del Pd, sembra persino ansioso di spianargli la via.
Si dice che ormai, al punto in cui la sinistra è ridotta, non ci sia altra strada. Noi continuiamo a pensare che se la sinistra – e con essa l’Italia – è ridotta così, è proprio perché da troppo tempo ha imboccato questa strada, e non solo nei suoi gruppi dirigenti, ma anche nei suoi giornali, nelle sue televisioni e persino nelle sue «fanzine» online. Una strada senza ritorno. Ecco perché, anche per i prossimi quindici anni, pensiamo ci sia ancora bisogno di qualcuno che si preoccupi, e che non smetta di parlare al conducente. Soprattutto oggi, che alla guida dell’Italia il conducente appare tanto concentrato quanto pericolosamente inconsapevole.