Poi tutto cambiò, il 16 febbraio del 2007. Ma quando cominciai a scrivere su Left Wing – e in generale: per lettori non consanguinei – il pettegolezzo si fondava su poche semplici regole (e di conseguenza la realtà). Angelina era una sfasciafamiglie, Brad uno smidollato, Jen la zitella dai lunghi capelli: precisamente come adesso. Epperò credetemi: in modo diverso. La storia eravamo noi. I giornali – quelli online, aggiornati ogni sei ore; quelli venduti la mattina nelle edicole; quelli recapitati, con squisita eccentricità e significativo ritardo, in abbonamento – si limitavano a distribuire puntini di presunta verità. Informazioni, le chiamavamo. Non erano più affidabili di adesso, solo meno forsennate. Ci davano il tempo di scegliere le traiettorie per unirle, e decidere da che parte stare.
Furono anni pieni di meraviglia. Anni in cui potevo credere alla superiorità ontologica di Kate Moss che si drogava, certo, ma con stile sufficiente a rendere irrilevanti gli sdegni delle maison in cerca di rispettabilità à porter. Gli offesi di mestiere non esistevano ancora, e siccome neanche usava la condanna nota come “video di scuse”, di quello scandalo rimane giusto il ricordo di una serata difficile (e il mantra degli invincibili: «Fuck off, fuck off, just fuck off»). Furono anni pieni di illusioni, in cui genuinamente mi interessavo pure alle sorti di Anna Falchi, brevemente in Ricucci. Furono anni – come dimenticarlo? – pieni di Suri Cruise. Di Shiloh Jolie-Pitt, di Violet Affleck, di Cruz Beckham e di altri neonati fotografati per strada: la ferocia dei paparazzi unico ostacolo apparente tra la privacy e il pubblico dominio. Furono gli anni migliori di tutti, per essere una pettegola ottimista e di sinistra. (Alle elezioni vinse Romano Prodi: dopo cinque anni di Berlusconi, e una serata difficile).
Quando tutto cambiò, il 16 febbraio del 2007, anche per Britney Spears il peggio sembrava passato. Dopo cinque anni di patimenti – un crepacuore, due matrimoni, due figli, svariate condotte disdicevoli e un divorzio annunciato con toni da propaganda – le rimaneva solo da superare la sua serata difficile. Io ero in macchina, in cima all’Appennino, sotto la neve, nella preistoria: il telefono da cui appresi la notizia – dalla viva voce di un umano, nientemeno – era un Nokia 3110. Britney si è rasata a zero, mi disse. Ti richiamo dal fisso, risposi. Nel tempo che ci misi a trovare una connessione sufficientemente robusta, Britney la calva si era fatta fare due tatuaggi nuovi, e il racconto puntiforme della celebrità si era trasformato in un sistema continuo. Fatti, illazioni, foto, commenti non erano più notizie singole: erano diventati un flusso ininterrotto di chiacchiere su chiacchiere su chiacchiere su chiacchiere. Accadde tutto quella sera lì. Britney non fu capace di reggere l’urto, i giornali neanche. (E pure Prodi non si sentiva tanto bene: il 21 febbraio si dimise per la prima volta, a scopo dimostrativo).
La struttura dei social network era l’unica forma in cui questo magma di informazioni poteva organizzarsi per sopravvivere. Non c’è ordine: solo accumulo. Saltando tutti i passaggi istituzionali, la chiacchiera può rimbalzare direttamente dal produttore al consumatore. Il 14 ottobre del 2007 debutta su E! Keeping up with the Kardashian: il culo di Kim diventa modello di fama autoindotta. (Il 14 ottobre del 2007 nel Partito Democratico si svolgono le primarie originarie: Walter Veltroni diventa il paradigma di segretario autarchico. Stabilire chi sia invecchiato peggio è lasciato al lettore come esercizio).
È a questo punto che le celebrità decidono di occuparsi del racconto di sé come fosse una Smemoranda. Condividono foto di piedi, vacanze, impacchi antigonfiore, gattini e neonati in batteria (ovvero: la colpa non è mai stata dei paparazzi). Proiettare una spontaneità immaginaria è la maniera fotogenica di blindare la verità: la coreografia delle vicende familiari di Beyoncé è quella di una processione devozionale, mica la storia di una pluricornuta che partorisce gemelli di riparazione. Pretendere di dirsi tutto è il modo più efficace per non dire niente. Se sei capace: sennò è sovraesposizione. Britney lo sa e quando torna sulle scene, dopo anni di penitenza e rinconfigurazione, non ci prova nemmeno a spacciarsi per contemporanea. Nel 2013 annuncia la sua prima stagione permanente a Las Vegas, come le vecchie glorie. (Pier Luigi Bersani, in diretta streaming col Movimento 5 Stelle in odore di egemonia, non ci usa la stessa premura).
Britney Spears è rimasta al Planet Hollywood di Las Vegas per quattro anni: praticamente una legislatura (compreso il rinnovo di metà mandato). È servito a conferirle autorevolezza: era ribelle e inaffidabile, ora sa garantire un programma decoroso con buona continuità. Compila giudiziosamente i suoi profili social: qualcosa di romantico, qualcosa di spiritoso, qualcosa di promozionale. Qualcosa di avvincente: mai. E quando prova a resuscitare polemiche antiche per guadagnare un quarto d’ora di dibattito, fa tenerezza: non c’è anima viva cui interessino ancora le sue beghe con Christina Aguilera. L’anno prossimo tornerà a Las Vegas. Nonostante i numerosi video dietro le quinte, convincere il pubblico che vale il prezzo del biglietto – senza essere rassicurante come Céline Dion; senza essere a buon mercato come Puppetry of the Penis – al momento sembra un’impresa disperata. (E qui i puntini potete unirli anche da soli).