Tra l’esprimere soddisfazione istituzionale (moderata, piena, secondo tutte le possibili coloriture) per l’arresto di un latitante e l’augurarsi che marcisca in galera fino alla morte ci sono almeno trecento anni di civiltà, che non riguardano solo le persone di sinistra, ma dovrebbero riguardare tutti. La giustizia è un fatto umano, popolare e spietato: la piazza e la sua soddisfazione sono sempre state coinvolte nei giudizi e nelle esecuzioni. L’evoluzione della nostra idea di giustizia in una comunità civile ha avuto una certa linearità nel corso dei secoli, procedendo lentamente – a volte con qualche rimbalzo – verso la sua progressiva sottrazione dalle mani di chi la pretende agitando i forconi.
La giustizia è un fatto emotivo, molto emotivo, e la sua rappresentazione pubblica è anche un rito di affermazione sociale in cui, attraverso il processo, la condanna e l’esecuzione di qualcuno che non siamo noi, ognuno può sentirsi dalla parte giusta della società – con tutti i diritti che questo comporta – per una sola ragione: io non sono quello che state giustiziando. E questo non dipende dalla condizione ultima del giustiziato: innocente o colpevole non importa, la sua eliminazione dalla società è necessaria perché tutti possano sentirsi innocenti.
Pretendere che la giustizia e le passioni coinvolte siano anestetizzate in un apparato burocratico inerte è un’illusione, e non a caso queste forme di giustizia asettica sono più fantasie distopiche che prospettive reali. Tuttavia lo sviluppo della giustizia ha sempre visto come una forma di progresso necessario questo dare un ordine, anche minimo, alla barbarie. La legge del taglione fu progresso rispetto all’arbitrio cieco, mentre la ghigliottina fu progresso rispetto ai supplizi. Ogni squartamento veniva eseguito secondo una procedura dettagliata, con una legittimazione che ne era anche la ragione stessa: è ciò che dice la legge. Non importava quanto efferata fosse un’esecuzione, non esisteva un criterio di proporzionalità oggettiva se non quello stabilito dalla legge.
Ciò che trasformava un’esecuzione sommaria in un’esecuzione in nome del popolo – e non eseguita dal popolo – era la presenza di un giudice, di una sentenza, di un boia e di una procedura dettagliata. Il dettaglio era il limite, qualunque esso fosse, e aveva un significato preciso: non è una vendetta. Si fa giustizia applicando la legge, le regole che ci si è dati per sottrarla alle passioni, e il ruolo dei governanti e della politica dovrebbe essere quello di mediare queste passioni, non di alimentarle o di sentirsi parte in causa. In questa simbiosi tra politica e sentimento popolare oggi sembra impossibile fare qualsiasi distinzione.
In The Hateful Eight, film western di Quentin Tarantino, Osvaldo Mobray, boia di Red Rock, dà una piccola lezione a Daisy Domergue, bandita in attesa di essere impiccata, sulla differenza tra la giustizia delle società civili e la giustizia di frontiera: il processo e il boia che esegue la sentenza sono la rappresentazione di ciò che una società civile chiama giustizia, i cittadini che trascinano l’assassino nella neve e lo ammazzano sono invece giustizia di frontiera. Il lato positivo della giustizia di frontiera, spiega Osvaldo, è che placa la sete; il lato negativo è che può essere anche ingiusta. La differenza è lui: il boia. L’uomo che tira la leva dell’impiccagione è un uomo distaccato, e quel distacco è l’essenza stessa della giustizia, perché la giustizia eseguita senza distacco rischia sempre di non essere giustizia.