La decisione del Tribunale dei ministri di Catania di chiedere l’autorizzazione a procedere contro il ministro dell’Interno, accusato di sequestro di persona nei confronti dei 177 migranti costretti a bordo della nave Diciotti, non sarà priva di conseguenze politiche, e molto dipenderà da come voterà il parlamento. Ma comunque vada a finire, una cosa è sicura: non è in atto uno scontro tra magistratura e politica. E se anche ve ne fosse il pericolo, si è attivato un meccanismo costituzionale che serve proprio a scongiurarlo.
Tanto per cominciare, la polemica su garantismo e giustizialismo qui c’entra poco: il garantismo è anche la soggezione al diritto di qualunque potere, che deve essere vincolato e controllato per impedirne un esercizio illegale, a garanzia dei diritti di tutti. Le indagini che hanno riguardato i fatti di quei giorni di agosto sono state svolte soprattutto a tutela dei diritti delle persone che erano a bordo della Diciotti, ma proprio perché si è garantisti il merito dell’imputazione deve essere lasciato ai giudici e, in questo caso, al parlamento.
Il Tribunale dei ministri e la relativa procedura sono stati introdotti nel 1989 con una legge di rango costituzionale che modificava l’assetto precedente, in previsione dell’eventualità che un presidente del Consiglio o un ministro commetta un reato nell’esercizio delle sue funzioni. Per questo l’obiezione secondo cui ci troveremmo di fronte a un’ingerenza ingiustificabile della magistratura è infondata. Come scrive lo stesso Tribunale nelle cinquanta pagine del suo provvedimento, la tutela giurisdizionale esiste non per contrastare il potere politico, ma per proteggere le sfere soggettive individuali. Quindi, piaccia o no, anche quelle dei passeggeri della Diciotti.
Nessuno è al di sopra della legge, nemmeno un ministro in carica, ma proprio per la sua funzione gli viene riconosciuto un procedimento speciale, che lascia al parlamento l’ultima parola sull’azione giudiziaria nel caso abbia violato delle leggi in nome di un interesse superiore dello Stato. E questo è ciò che sostiene il ministro Salvini, ma accertarlo è lo scopo del procedimento, con un dettaglio non irrilevante: la decisione finale sulla sussistenza di tale superiore interesse non è affidata alla magistratura, ma alla sovranità parlamentare. Con l’autorizzazione a procedere si chiede dunque al Senato un giudizio esclusivamente politico. La legge costituzionale prevede infatti che l’assemblea neghi l’autorizzazione a procedere, con una decisione insindacabile, se il ministro ha agito «per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante, ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio di governo». Si tratta di una vera e propria esimente politica, che è quella che Salvini rivendica, ma che prevede un’assunzione di responsabilità da parte della maggioranza parlamentare attraverso il voto.
Nessuno contesta, insomma, il fatto che «le politiche migratorie non possono essere decise dalle procure». Le procure non dovrebbero mai influenzare le decisioni politiche. Ma esiste il limite della legge a cui tutti siamo soggetti, ministri compresi. Ed è un bene che sia così: se domani un ministro dell’Interno decidesse di perseguire la politica migratoria del governo attraverso l’istituzione di campi di reclusione illegali, e la magistratura intervenisse, siamo sicuri che sarebbe saggio gridare alla repubblica giudiziaria?
Qui non è in questione l’indirizzo politico seguito dal ministro dell’Interno, ma se il ministro dell’Interno abbia commesso dei reati. Secondo il Tribunale di Catania lo ha fatto, e per questo chiede un’autorizzazione a procedere. Ed è così marcata la separazione dei poteri che sarà la stessa maggioranza di governo a confermare o smentire la natura politica delle decisioni di Salvini, rivendicandole come atti di governo compiuti nell’interesse dello Stato. Il fatto che poi, stando ai giornali, a negare l’autorizzazione a procedere potrebbe essere non già la maggioranza di governo, ma uno strano impasto di maggioranza (Lega) e opposizione (Forza Italia e Fratelli d’Italia), è tutt’altro problema, che non riguarda e non chiama in causa i giudici, ma gli elettori.